Marius Schneider e il significato della musica di Gino Stefani, a cura di Antonello Colimberti

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Un omaggio a Gino Stefani e alla sua passione per Schneider1
 
Premessa
Il 7 aprile scorso, all’età di 89 anni, è venuto meno Gino Stefani, colui che altrove abbiamo definito “un acuto e brillante outsider della musicologia italiana”.
Lo abbiamo conosciuto durante i nostri studi al DAMS di Bologna e con lui abbiamo discusso una tesi sperimentale su una ricerca interdisciplinare sui codici di rappresentazione temporale, condotta in quegli anni con una équipe diretta da Albert Mayr.
Negli anni successivi, quando preparavamo presso l’Università di Salerno una tesi di dottorato sull’antropologia del gesto del gesuita francese Marcel Jousse, scoprimmo che Stefani era tra i pochi, in Italia, a conoscere l’opera di questo importante personaggio del Novecento, di cui era venuto a conoscenza durante gli anni Sessanta del secolo scorso, quando studiava e viveva a Parigi.
Fu cosa immediata l’invito da parte sua a presentare l’opera joussiana presso l’Università di Tor Vergata a Roma, dove svolgeva il suo insegnamento dopo gli anni bolognesi.
Ma l’incrocio fra Stefani e il mio cammino culturale era solo agli inizi.
Quando con Claudio Lanzi decidemmo che, dopo un primo libretto, era giunta l’ora di pubblicare due importanti volumi del musicologo francese Jacques Viret (Musica medievale e Musicoterapia), l’autore ci informò della sua conoscenza con Stefani e del suo desiderio di aggiungere nell’edizione italiana un riferimento alla MusicArTerapia nella Globalità dei Linguaggi, disciplina fondata inizialmente da Stefania Guerra Lisi, ma successivamente condotta insieme al suo compagno di vita Gino Stefani.
Non era finita, l’incrocio fra Stefani e me riservava ancora una sorpresa finale. Quando nel 2017, in occasione del convegno Schneider: Musica, arte e conoscenza, svoltosi presso Simmetria, preparai un lavoro su Marius Schneider e la cultura italiana (la relazione è leggibile negli Atti del convegno), scoprii che Stefani era stato tra i primi e rari ad occuparsi del Nostro, facendolo con una grande competenza, da noi classificata come “attenzione rispettosa”.
Ancora una volta, giù il cappello!
Ed ecco la lunga recensione a Il significato della musica (fonte: “Lo spettatore italiano”, n. 2, marzo aprile 1971).
Antonello  Colimberti
 
 
 
Antonello Colimberti
 
 
 
 
 
 
 
“Marius Schneider e il significato della musica, di Gino Stefani
 
In principio era il suono.
Dio o demiurgo, il suono generò il cosmo.
Quell’atto primordiale e unico, di natura sonora, si venne gradatamente materializzando nelle cose create.
L’unisono si articolò in una pluralità di esseri nella cui varia struttura si riflettevano le leggi originarie, di sostanza armonica.
Fu nelle tarde culture megalitiche, parecchi millenni fa, che la specie umana prese compiutamente coscienza di questa armonia cosmica, formulandola in una filosofia simbolica dove la molteplicità delle forme fenomeniche era ricondotta a poche figure fondamentali: una catena di simboli disposti in zone concentriche intorno al nucleo sonoro.
Passata quell’età dell’oro ha inizio una lunga decadenza; le culture superiori antiche conservano, benché in formulazioni già astratte e parzializzanti, la sostanza della filosofia simbolica; nel Medioevo occidentale essa convive con le credenze cristiane, perdurando qua e là sino ‘all’Illuminismo; ai nostri giorni la ritroviamo solo presso le culture primitive, o nel deposito di certi filoni esoterici. A queste due fonti attinge appunto Marius Schneider, etnomusicologo e cultore di discipline ermetiche, formulando una filosofia musicale simbolica che rappresenta una sintesi unica nel nostro secolo. Più che ipotesi scientifica o proposta culturale, questa dottrina si vuole messaggio iniziatico, da prendere o lasciare in blocco. Circolo ermetico, essa respinge o vanifica le critiche esterne. D’altra parte, la sua straordinaria ricchezza di articolazione consente a chi — come noi — rifiuta quel programma nel suo massimalismo, di rilevarne elementi, peraltro non incidentali, di grande interesse per l’interpretazione dellesperienza musicale.
Nel farlo terremo le debite distanze dall’opzione metafisica (a colorazione fortemente magico-religiosa) dell’autore, dalla sua epistemologia volutamente prescientifica (quella stessa di un Athanasius Kircher o di un Robert Fludd), dalla sua concezione rigorosamente oggettualistica del simbolo (che espunge accuratamente ogni contaminazione’ antropologica cioè dellumano), oltre che, beninteso, dal suo panismo musicale.
Ci difenderemo anche dalle suggestioni del suo gesto verbale: una fabulazione evocativa, incantatoria, di sacerdote o stregone, esercizio effettivo di un’ars combinatoria, pregnante di potere performativo come una formula magica, una parola che crea il suo oggetto — o che in ogni caso è perfettamente connaturale a esso. D’altra parte staremo attenti a cogliere certe notazioni sapienziali che basterebbero da sole a rivelare nello Schneider la vocazione e la statura di un vero maestro.
 
Un’estetica integrale
Preso alla lettera, il discorso di Schneider è totalizzante sino alla tautologia. Esso si potrebbe formulare pressappoco così: in un cosmo dove tutto è musica, qual è il significato della musica?
In questi termini la proposta non interessa il lettore moderno, presso il quale di fatto il nostro autore non gode popolarità.
Ma tradotto in categorie musicologiche plausibili, la dottrina della musica cosmica corrisponde allipotesi di un’estetica integrale. Qui la proposta non cade nel vuoto.
Le attuali ricerche sullo ‘specifico musicale’ partono dal riconoscimento del carattere di totalità dell’esperienza sonora, ritentando la fondazione di morfologie psico-fisio-musicali (Lazarus), restringendo il costitutivo musicale all’intervallo (Wolff) e fino al suono isolato (Husson), o spostando l’attenzione su princìpi generali quali il ritmo (Koffka), l’energia cinetica (Kurth), lo spazio (Kurth, Wellek) e il tempo musicale’ (Marcel, Brelet).
Ancora più aperte, le estetiche sperimentali ritrovano nell’esperienza sonora le connotazioni dell’intero universo culturale dell’uditore (Francès, Moles). Nell’interrogarsi sul significato della musica, le varie tendenze convergono dunque nell’orientamento simultaneo al più piccolo (il suono) e al più grande (il cosmo): appunto la partenza di Schneider.
L’obiettivo di una estetica musicale integrale è ben dunque — nell’ipotesi massimalista di un Wiora o di una Brelet — la comunione del cosmo ricostruita a partire dal suono, o per converso (e in una circolarità immanente alla cosa) la riscoperta del suono attraverso il cosmo; in questo senso si proclama che l’estetica musicale sarà integrale, o non sarà ‘affatto’.
Ora, queste istanze totalitari hanno veramente trovato un modello unitario, sintetico?
Si dà, oggi, un esempio concreto di interpretazione globale dell’esperienza sonora?
Schneider ne è un caso forse unico nella sua singolarità.
Per lui come per nessun altro la musica è veramente una metafora epistemologica di tutto un universo; di più, tutto un universo viene da lui evocato per interpretare la musica.
Quale musica?
A rigore, solo quella che l’etnomusicologo trova presso i primitivi, con parziale estensione alle immagini larvali rimasteci delle civiltà musicali antiche.
E quale universo?
Un cosmo, dobbiamo dirlo, ipotetico, composto di ritagli di realtà appartenenti a diversissime epoche, regioni e culture.
Ma vale la pena osservare come il metodo d’indagine (se così si può chiamare l’affabulazione schneideriana) sia adeguato al suo oggetto: come un primitivo, Schneider si aggira nella foresta di quel cosmo intemporale, guidato unicamente da un istinto connaturato, cioè dalle affinità e repulsioni delle cose stesse, quelle che negli alchimisti rinascimentali si chiamano signaturae, sympatiae e antipathiae rerum, collegate a costituire catene di simboli.
L’astro, la pietra, l’erba, l’uccello, il colore e la forma e il suono di un oggetto gli parlano della stessa realtà; la catena può cominciare da qualunque punto; che il primo anello della catena — o l’ultimo — sia il suono è un’opzione gratuita e insieme incontestabile, come lo sarebbe qualunque altra in questo cosmo solidale e relativamente indistinto, dove il Tutto è dovunque, variando solo il modo dell’epifania.
Qualcuno ha risentito la suggestione di questa dottrina (pensiamo a un Bortolotto, ad esempio), traendo da essa ‘ispirazione’ per interpretare il fatto musicale, ma peccando forse di letteralismo nella trasposizione del modello. In effetti il regime epistemologico del cosmo arcaico — la catena di simboli — non si applica facilmente al mondo moderno, dove la solidarietà fra gli elementi ed eventi è più precaria o al contrario irrigidita in rapporti di subordinazione (causa-effetto). Così, fra l’altro, non è più possibile parlare indifferentemente, come fa Schneider, di suono (evento cosmico) e di musica (attività specifica); di più, è ormai necessario riconoscere all’evento musicale una relativa autonomia rispetto al cosmo, e negli eventi sonori non è più possibile trascurare l’intervento specificamente umano e personale. In altre parole, il tragitto analogico circolare non potrà più esimere dall’analisi interna dell’oggetto sonoro; e lo stesso rinvio ad altri anelli della catena simbolica richiede di volta in volta precise giustificazioni. La formula schneideriana dell’integralità si concreta a diversi livelli dell’analisi, sino alla proposta pedagogica: «Per nostra sfortuna, oggi separiamo troppo il divertimento e l’arte, la filosofia e la religione, dal cosiddetto impegno nella vita, e così disperdiamo quotidianamente quasi tutte le ricchezze che le ore di svago ci forniscono.
L’uomo non sofisticato non conosce tale frattura».
Una proposta che non può non trovarci consenzienti. Ne vedremo più avanti alcune modalità.
Una musica ‘giusta’ alle estetiche moderne del dilettevole, del gusto, del sublime il ‘bello’ appare un carattere fondamentale.
A queste prospettive la filosofia simbolica apporta un correttivo abbastanza radicale.
Se il cosmo (arcaico) è ottimisticamente immaginato come il migliore dei mondi possibile, e se ogni musica umana ha per termine di paragone la musica cosmica, l’unica qualità richiesta e apprezzata nella nostra musica è di essere ‘giusta’, cioè conforme all’ordine universale.
La storia della musica presenta come una costante questa istanza per la ‘giustezza’ naturale.
I libri rituali delle religioni richiedono nel canto una ‘voce giusta’, vale a dire conforme a canoni tradizionali e sacrali, perché il culto sia gradito alla divinità. Nelle operazioni magiche la giustezza della voce, che in questo caso è la perfezione nell’imitare l’essere a cui ci si rivolge, è un requisito indispensabile per l’efficacia dell’intervento umano. Sulla giustezza di rapporti matematici s’impianta tutta l’aritmologia musicale, da Pitagora a Keplero, coltivata ai giorni nostri da Kayser e Haase.
Il progetto di una giusteza ‘naturale’ si ritrova anche al livello, più empirico, delle teorie classiche sulla consonanza e la dissonanza, nonché nelle ‘leggi’ del contrappunto scolastico.
Nelle poetiche musicali contemporanee, una versione aggiornata del progetto arcaico è la formula di Xenakis, il quale giustifica i suoi comportamenti stocastici con la cosmologia platonica del Timeo, affermando che di là dall’esperienza uditiva l’armonia dei grandi numeri s’imprime efficacemente nell’animo di chi ascolta le sue musiche, appunto ‘giuste’, cioè composte con formule matematiche che riflettono leggi naturali statistiche.
Come dice Schneider: «La sostanza sonora e ritmica, insita in tutte le cose, è presente anche là dove l’uomo comune non la percepisce».
E anche un Boulez, con il suo pensare musicale ‘giusto’, persegue una poetica, sia pure di stampo artigianale, che non manca di appellarsi a formulazioni scientifiche delle leggi di natura. La filosofia del giusto-conforme-natura introduce nelle nostre estetiche un’istanza di fondo a superare l’unilateralità delle vedute psicologiche e formalistiche.
Se questa istanza si è finora manifestata in direzioni prevalentemente naturalistiche, ciò non significa che un passo avanti non possa farsi nella direzione dell’antropologia, nella ricerca degli archetipi umani.
L’interesse contemporaneo per gli approcci psicologici alla musica sembrano appunto rivelare lo sforzo di tendere a una semiologia dove il ’giusto’ (nel senso analogico di adeguato, pertinente, correlativo) riacquista importanza come categoria di mediazione fra il progetto poietico e quello comunicazionale.
Musica, linguaggio, creazione Le estetiche musicali dal barocco a oggi hanno dato ampio spazio all’interpretazione della musica come linguaggio.
Collegata sino all’epoca classica con la retorica (Affektenlebre, Figurenlehre), linguaggio immediato dei sentimenti nel romanticismo; più tardi ‘discorso’ autonomo, la musica è sembrato costantemente poter rientrare in questo o quel progetto linguistico o paralinguistico.
Solo di recente la Nuova Musica e pochi ermeneuti espungono quella valenza: l’operazione musicale potrà sì avere un versante linguistico all’interno di una data cultura, ma questo non è necessariamente in ogni operazione musicale; altra cosa è, poi, la cibernetica e le moderne semiologie generali possano ridurre l’oggetto sonoro — come qualunque altro — a diagrammi di sistemi e sintagmi.
Nella filosofia simbolica schneideriana il suono (e per estensione la musica) perde ogni capacità di essere linguaggio.
L’intenzionalità degli individui empirici creatori o portatori del Suono è un’entità decisamente trascurabile; di più, l’evento sonoro non connota neppure la cultura entro cui avviene.
Il comparatismo sincretistico che è il metodo ermeneutico di quella filosofia estrae i dati sonori dal contesto depurandoli da ogni riferimento non ‘verticale’, nella direzione cioè del mito, il quale è rigorosamente astorico.
A uguali segni corrispondono, sempre e dovunque, uguali significati.
Le figure sonore sono esse stesse le divinità impassibili di un cielo; non si dà vicenda né sviluppo, quindi neppure ‘discorso’.
Con ciò è tolto loro anche quel minimo di spazio antropologico necessario perché possano vivere come simboli, nel senso moderno. In questa concezione il suono non comunica, ma fonda; il suo ‘significato’, sottratto a qualunque regime convenzionale, è niente altro che le leggi eterne del cosmo arcaico. Un cosmo che non è comunicazione: Schneider corregge costantemente l’antico adagio ‘in principio era la parola’ nell’altro ‘in principio era il suono’, affermando l’atto creatore come rigorosamente performativo, inaccessibile a qualunque approccio interpretativo.
Il suono è prima e più forte del logos, del pensiero-parola, della ratio e del numero.
Di fronte al suono-cosmo, l’unico atteggiamento possibile all’uomo, individuo empirico, è l’obbedienza.
Il dio-suono si impone al fedele (ma anche al profano) con l’efficacia automatica del sacramentum, o meglio dell’operazione magica.
Il suono schneideriano è un simbolo per l’uomo, non dell’uomo.
Senza accettare la metafisica soggiacente al discorso, possiamo accogliere l’invito a riconsiderare tutte quelle proposte musicali imperative, per dir così, in cui si scorge una volontà di superare la condizione di rappresentazione sonora per compiere un atto di fondazione cosmica: una istanza profonda dell’idealismo romantico. E ancora più in profondo, rimeditare come sia iscritto nel progetto stesso di ogni compositore (sia pure inconsapevolmente), mentre di necessità assume una data condizione storica e dunque linguistica, superarla e al limite annullarla nel proposito poietico, testimoniando così l’inevitabilità dell’istanza creatrice o demiurgica inerente al fare umano — dove peraltro resta ugualmente essenziale la dimensione comunicativa, interpersonale, propriamente simbolica nel senso che abbiamo appreso da Ricoeur. Musica e religione I rapporti musica-religione costituiscono uno fra i nodi più de si della tematica schneideriana. Nessun autore quanto il nostro ha sviluppato nell'indagine musicologica le conseguenze di un metodo in vigore alcuni decenni fa, vogliamo dire il comparatismo (di genere letterario più che antropologico) che caratterizza un Eliade o un Mondésert, i cui risultati si configurano in un sincretismo oltranzista.
e una ricerca dove ai simboli religiosi viene assegnato un identico valore e significato, prescindendo da ogni specificazione proveniente dal contesto, obbligandoli a oggettualizzarsi in categorie univoche, opache. Si spiegano così — sia detto di passaggio — le forzature, i travisamenti, le inversioni di senso che Schneider fa subire ai testi e segni religiosi, in specie cristiani. Il nostro autore ne è, di regola, ben consapevole; la sua lezione va quindi colta a un livello che non è la lettura letterale; noi accetteremo la sua versione sincretista del fatto religioso cristiano come se fosse valida: sarà così più facile identificare le componenti magiche o sincretistiche che hanno effettivamente influito sulle concezioni intorno alla musica sacra in regime cristiano. Si possono così esaminare utilmente assiomi come i seguenti:
«È al suono che i riti devono la loro efficacia»;
«La musica è più sostanziale della parola detta»;
«Il canto non fa da accompagnamento al sacrificio, ma costituisce il vero e proprio nucleo dell’azione sacrificale »; ecc.
Nessun autore cristiano ha mai sottoscritto simili proposizioni, nonostante Schneider insegni il contrario.
Ma l’insistenza e la minuzia con cui le rubriche liturgiche hanno regolamentato certi gesti vocali dei celebranti; l’avere per un intero millennio trascurato l’intelligibilità dei testi a favore di un rivestimento sacrale-musicale; una certa mistica dell’opus Dei salmodico, dove la cantillazione rituale è vista salire al trono dell’Altissimo con l’efficacia dell’omaggio gradito appunto in quanto musicale: queste e analoghe situazioni rivelano la persistenza in regime cri- stiano delle credenze arcaiche. Così la dottrina esoterica postula, in Schneider, l’esistenza di un’arte (se di arte si può parlare, nella prospettiva dell’elementare in cui egli si pone) intrinsecamente religiosa; e sarà, nella civiltà cristiana, il gregoriano in quanto riflette comportamenti elementari, cioè ‘naturali’, quindi cosmici e di fatto tradizionali (la Tradizione di cui Schneider tratta è una sola e ingloba le culture più svariate, salvo quelle moderne).
Soprattutto, l’arte religioso-sacrale, quella che ha un’efficacia intrinseca e automatica nella sfera del divino, rifiuta l’intromissione dell’individuo, come costante minaccia di deviazione dall’ordine universale, attentato privato alla Totalità impersonale.
Ora, analoghi presupposti hanno ispirato nella cristianità diverse teorie e prassi: quella spiritualità ‘gregoriana’ la cui quintessenza è una mediocritas anzi aequalitas spersonalizzante; le posizioni reazionarie che in epoca illuministica proponevano l’ideale arcaizzante di una musica religiosa dove il gregoriano con la sua modalità e il suo diatonismo garantivano il radicamento in un ethos e ‘in una acustica ’naturali’ (si può citare indifferentemente un padre Martini o un Rousseau); finalmente, il modello disincarnato, immobile, asettico (simbolo della trascendenza), tipico della restaurazione liturgica francese, poi sanzionata da Pio X, che si traduce in un radicale e massiccio ritorno all’arcaico e in una altrettanto radicale condanna del ‘soggettivismo’, cioè dell’arte moderna in blocco.
Il reattivo costituito dai testi di Schneider rivela che ancora oggi la cultura occidentale non ha preso chiara coscienza né della secolarizzazione operata dal messaggio cristiano nei confronti del mondo arcaico-sacrale, né degli ultimi sviluppi di questo processo, che per tutti, ma specialmente per il credente, comportano l’affermazione dell’autonomia della creazione musicale. Questa coscienza è condizione necessaria per spingere a fondo l’ipotesi di un'estetica integrale nel nostro mondo secolarizzato.
Tanto peggio per Schneider se i suoi testi sono serviti, questa volta, a un fine diametralmente opposto a quello da lui inteso.
 
Musica cosmica e forma musicale
Infine una questione di interesse capitale anche fuori della filosofia simbolica, ma che Schneider ha il merito di porre in termini radicali e nella sua ineluttabilità.
Quali sono i rapporti tra il cosmo e l’individuo empirico, tra l’armonia profonda dell’essere e il progetto poetico del compositore, tra la musica elementare e la musica d’arte?
La prospettiva del nostro autore è cristallina e perfettamente coerente alla sua metafisica panmusicale: «Affidandosi alla corrente (ritmo) del ‘grande corso’, il suono individuale fa partecipare l’individuo alla ‘grande’ o ‘antica parola’».
Stabilita la priorità del cosmo sull’uomo, l’unico ordine retto, secondo natura, è che la musica humana (tanto più quella instrumentalis) si subordini e conformi alla musica mundana.
E in che modo l’uomo (il compositore) si metterà in sintonia con il cosmo (l’armonia universale)?
Non attraverso la coscientizzazione lucida, ‘diurna’ della forma, ma nel consegnarsi oscuro, ‘notturno’ ai simboli, alle forze elementari.
Vediamo qui confluire in sintesi (una sintesi resa possibile dall’integralità del cosmo arcaico) tanti filoni dell’esperienza musicale moderna oggi irriducibili all’unità.
Nel tragitto verso l’oscuro, di cui ci hanno tanto parlato i romantici e Marcel Beaufils, l’esperienza uditiva è guida privilegiata, ricorda Schneider: «Nessun organo sensorio riesce, come l’udito, a penetrare l’inconscio».
Anche André Michel sottoscriverebbe, in nome della psicanalisi, questo assioma; e qualunque terapia musicale si fonda su questo presupposto.
Udito a parte, appare ogni giorno più chiaro quanta virtù terapeutico-pedagogica sia nell’affidarsi alla musica elementare, ai ritmi elementari; un esempio fra i più singolari è la pratica della psicofonia di M. L. Aucher. Particolarmente suggestiva, anzi profetica, ci sembra poi l’insistenza di Schneider nell’invitare a vivere i ritmi asimmetrici, ben più ‘naturali’ dei poveri schemi usuali della nostra musica tonale.
Più in generale si può osservare come certe classificazioni schneideriane dei comportamenti della musica primitiva costituiscono dei patterns informazionali applicabili ad amplissimi ventagli di realtà.
E se le ricerche antropologiche di un Marcel Jousse su ritmi binari umani hanno già influito sulla pedagogia musicale, quelle più complesse di un Leroi-Gourhan (sui rapporti gesto-parola) potranno sostanziare più di un’intuizione del nostro etnomusicologo.
Dove però la proposta della filosofia musicale simbolica appare più fascinosa e tentante è probabilmente là dove si propone di annodare segrete relazioni tra la musica cosmica e la forma musicale.
Un miraggio?
Certo, uno fra i massimi problemi delle poetiche musicali contemporanee, che conta fra i suoi teorici più consapevoli un Cage e un Donatoni.
Il loro tentativo è chiaro: rinunciare alla classica priorità della forma per mettersi in ascolto del cosmo; ciò appare, oltre che nelle loro musiche, già nel titolo dei loro libri: Silence è appunto l’invito all’ascolto.
Questo è la sigla dell’esistente indistinto.
Miraggio o veggenza?
Solo nel cosmo arcaico ipotizzato da Schneider, o in una analoga civiltà integrale, sembra possibile realizzare i due progetti estremi dell’esperienza musicale contemporanea: l’ascolto della musica cosmica e una composizione totalmente cioè cosmicamente controllata.
Nel nostro universo non sembra possibile se non l’atto di fede, il salto nel buio (Cage) o la sospensione del giudizio (Donatoni).
Salvo forse tentare una mimesi (il gesto sciamanico, per Schneider), come in una soup di Rzewski, giocando la propria disponibilità al coinvolgimento, all’obbedienza, contro la probabilità di evocare, di sintonizzare — chissà mai.
Schneider approverebbe, pensiamo, e si è tentati di credere che proprio questo sia il suo atteggiamento, il suo calcolo nell’affabulare a se stesso, in una civiltà disintegrata, una mitica cosmogonia musicale.
Se pure non si debba cercarne la motivazione più in profondo, in una esigenza di salvezza concretata in un proposito sapienziale che riconosciamo antico e familiare:
«Vivere ritmicamente significa onorare la verità e confidare umilmente in un centro ideale; perché senza questo centro ideale nessuno riesce a stabilire una relazione autentica con se stesso e con il mondo che lo circonda»”.
 
Gino Stefani
“Lo spettatore italiano”
n.2
marzo aprile 1971
 
 

1L’edizione originale di questo contributo, ideato dal noto Antropologo del Suono e del Gesto: Antonello Colimberti, è pubblicato nel sito Simmetria https://www.simmetria.org/sezione-articoli/articoli-alfabetico/137-arte-e-tradizione/1121-marius-chneider-e-il-significato-della-musica-di-g-stefani
Ringrazio vivamente il Prof. Antonello Colimberti e il Dott. Claudio Lanzi, Presidente dell’Associazione Simmetria, di aver autorizzato la pubblicazione su MiA, Musicoterapie in Ascolto.
MiA
Giangiuseppe Bonardi