Greco Marina, In ascolto del silenzio
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- Categoria: SILENZIO & SILENZI
- Pubblicato Lunedì, 12 Luglio 2010 14:12
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Se seguiamo Socrate nel suo insegnamento e dunque sposiamo la tesi secondo cui la salute dell’anima coincide con la conoscenza di se stessi, e posto che per conoscere se stessi è indispensabile innanzi tutto ascoltare il proprio messaggio interiore e aprirsi all’ascolto dell’altro, è imprescindibile porsi una domanda: quali sono gli strumenti che possono consentire a ciascun essere umano di entrare in contatto con la parte più profonda e insondata del sé per poter ascoltarla e conseguire, finalmente, il méghiston agathòn, il bene più grande, ovvero la salute dell’anima e il benessere interiore?
Ebbene, presupposto per il recupero dell’ascolto interiore e dell’ascolto degli altri (e dunque per il recupero del dialéghestai) è il silenzio.
Il silenzio è una dimensione interiore a cui ciascun essere umano può e deve aspirare se vuole cogliere la verità del sé.
Ma di che tipo di silenzio si tratta?
Di un silenzio che coinvolge non solo il senso dell’udito e il lògos-discorso[1], ma anche (e a mio avviso soprattutto) la vista.
Qualcuno potrebbe obiettare che ha senso parlare di silenzio come assenza di suoni, ma non di silenzio come assenza di immagini. Invece, nel mondo del Terzo Millennio dominato dall’immagine e ad essa asservito, non solo il silenzio ha un senso ma io lo riterrei addirittura indispensabile.
Sia chiaro, esistono svariati modi di considerare il silenzio, di interpretarlo e altrettanto svariate sono le sue valenze, a seconda dei contesti in cui esso è, consapevolmente o meno, esercitato[2].
L’aspetto su cui vorrei maggiormente soffermarmi è il silenzio come elemento essenziale all’interno del dialogo, con se stessi e con l’altro da sé. Quale valore assume il silenzio in questo contesto? Un valore maieutico: “nel suo aspetto creativo il silenzio maieutico rappresenta una modalità di essere con l’interlocutore, rappresenta cioè una proposta di «gioco», un contributo allo sviluppo di quel tempo-spazio dove due persone si incontrano o si scontrano per condividere un destino di crescita che li accomuna[3]”. È, questa, una tipologia di silenzio che non equivale allo stare semplicemente zitti, ma coincide con lo stare in ascolto e dunque con il tempo dell’attesa. È una pausa nella frase musicale, una sospensione di suoni carica di tutto il senso di ciò che l’ha preceduta, ma tesa verso ciò che verrà dopo; è il tempo-spazio dell’attesa.
Nel nostro ragionare, il silenzio maieutico è la dimensione in cui la verità del sé, l’identità, può emergere, e, parafrasando l’Heidegger di Essere e tempo, l’Esserci può rendersi comprensibile.
Siamo giunti al punto cruciale del nostro discorso: esercitare il silenzio, sia come dimensione interiore sia come forma di comunicazione, nel dialéghestai è estremamente complesso perché sottintende l’essere disposti ad accettare in primo luogo la verità del sé, qualunque essa sia, e, in secondo luogo, l’esistenza dell’altro da me che può mettere in crisi e destabilizzare ogni certezza.
Cosa accade dunque? Che la maggior parte degli esseri umani fugge il silenzio. Corradi Fiumara ha citato le parole di Sciacca[4] per esprimere il senso di panico e di angoscia che domina l’uomo per il terrore di trovarsi dinanzi a quello che l’autrice definisce horror vacui: “il silenzio ha una pesantezza… che non troviamo in nessuna parola: è pesante di tutto ciò che abbiamo vissuto, di tutto ciò che stiamo vivendo, di ciò che vivremo (…). In un istante di silenzio si raccoglie una vita intera. La teniamo in una mano e sembra di sprofondarci dentro. Non per nulla fuggiamo il silenzio, il solo che ci ponga di fronte alla nostra vita: ce la ricapitola all’istante, tutta presente. È una ricapitolazione che ossessiona, che opprime”.
Accettare di esercitare il silenzio per affrontare (ma alla fine ritrovare) se stessi è difficile e pericoloso. Ogni essere umano si chiede: cosa troverò al di là della mia “maschera”? Troverò le mie emozioni, la mia personalità, ciò che mi rende assolutamente unico e diverso da ogni altro essere umano? E se, invece, dovessi scoprire che al di là del copione recitato giorno dopo giorno non c’è nulla, c’è il vuoto? Allora potrei essere risucchiato da questa sorta di buco nero e potrei dunque perdermi. La soluzione? Mettere a tacere quel silenzio assordante, soffocarlo con le parole, con le azioni, divorando il tempo, occupandone ogni istante per non avere neanche la sola possibilità di imbattersi nel proprio sé.
In questa costante fuga dal sé, l’uomo occidentale del terzo millennio, ossessionato dalla mancanza di tempo, è notevolmente aiutato dalla tecnologia informatica che semplifica, e al tempo stesso amplifica, la sua vita frenetica: è tutto veloce, rapido, tutto avviene in tempo reale; ma quanto questo tempo realmente si avvicina al tempo interiore autentico, biologico dell’uomo?[5]
L’uomo occidentale, intrappolato in una dinamica centrifuga, si allontana sempre più dal suo centro, dalla sua identità, in una parola, dal suo Sé, perché senza il silenzio e senza il tempo non può esserci ascolto. L’ascolto non prescinde dal tempo e dal silenzio. Solo l’uomo che si riappropria del tempo e del silenzio può ascoltare l’essere e riappropriarsi della sua identità, della verità del suo sé.
Se già l’uomo fugge da se stesso rifiutandosi di rivelarsi, immaginiamo quanto si amplifichino le difficoltà e le barriere quando egli entra in relazione con l’altro.
Il dialogo dovrebbe essere occasione di confronto e di crescita, ma questo può accadere solo se il dialogo è autentico, ovvero se ciascun termine della relazione si rivela in modo autentico. Come ci insegna Heidegger, solo chi ha qualcosa di vero e di autentico da dire può scegliere di tacere, mentre chi non ha nulla da dire tende a parlare e a sovrastare completamente l’altro con un fiume di parole. Il silenzio autentico di chi tace, però, riesce a rivelare la chiacchiera e la mette a tacere.[6]
Porsi in atteggiamento di apertura, disponibilità e ascolto dell’altro, può nascondere, dunque, una pericolosa insidia per chi non ha nulla da dire.
L’ascolto, e dunque l’accettazione dell’altro, sottintende uno sforzo notevole che è quello di ammettere che esiste qualcosa che è altro da me e che può mettere in discussione me e le mie certezze.
Ed è forse proprio questa minaccia di destabilizzazione, insita nell’ascolto, che può spiegare il rifiuto di ascoltare dietro cui molte persone, a livello inconscio, si barricano.
Marina Greco
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[1] A questo proposito, è preziosa e illuminante la profonda riflessione sul silenzio di Corradi Fiumara contenuta nel settimo capitolo “Silenzio e ascolto” della sua opera Filosofia dell’ascolto, Jaca Book, Milano 1985.
[2] Un’interessante sintesi possiamo leggerla in Manarolo G., Manuale di Musicoterapia, Edizioni Cosmopolis, Torino 2006, pp. 170-172.
[3] Corradi Fiumara G., Filosofia dell’ascolto, cit., p. 135.
[4]La citazione di Corradi Fiumara (op. cit., pag.139) è tratta da Sciacca M.F., Come si vince a Waterloo, Marzorati, Milano 1963, p. 111.
[5] Cfr. Corradi Fiumara G., op.cit., p. 174 e segg.
[6] Cfr. Ibidem, p. 133.