Presenza e perdita della presenza
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- Pubblicato Domenica, 22 Ottobre 2017 06:42
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Presenza e perdita della presenza1
« 1. La presenza è fondamentalmente la capacità di riunire volta a volta nella attualità della coscienza tutte le memorie e le esperienze necessarie per rispondere in modo adeguato a una determinata situazione storica, inserendosi attivamente in essa mediante la iniziativa personale, e andando oltre di essa mediante l’azione: al tempo stesso la presenza è capacità di escludere i ricordi che non giovano, cioè inutili o indifferenti o dannosi in rapporto alla situazione data e alla esigenza di iniziativa, di decisione e di scelta che essa comporta. La presenza storicamente integrata implica quindi la possibilità di evocare volontariamente le memorie che occorrono per l’azione presente, e di inibire quelle che non giovano, nel che consiste propriamente la vita fisiologica della presenza. Ma che cosa significa “rispondere in modo adeguato a una data situazione storica”? Sarebbe un errore intendere qui tale risposta come semplice adattamento pratico a una situazione esterna: la situazione che sollecita la iniziativa della presenza può essere sia “esterna” che “interna” alla presenza stessa, e la iniziativa può essere non soltanto pratica stricto sensu (cioè economica e morale), ma anche in un senso più ampio, in quanto qualificata secondo una delle distinte potenze operative della vita culturale, e quindi anche secondo una delle potenze teoretiche, come l’arte o il logos. La presenza storicamente integrata si caratterizza pertanto come la possibilità di unificare il diverso secondo distinte potenze operative, scegliendo ciò che si deve fare nel momento dato, nel quadro di determinate tradizioni culturali, in coerenza dinamica con il proprio ambiente economico e sociale e con l’educazione ricevuta.
2. La perdita della presenza come crisi radicale della presenza stessa si collega a un momento critico dell’esistenza, quando la storicità sporge con particolare evidenza, e la presenza è chiamata ad esserci con l’impiego pronto ed adattato della sua capacità di scelta e di decisione. Si tratta di momenti connessi a crisi organiche decisive, come la nascita o la pubertà, la malattia e la morte o a istinti vitali come la fame o l’mpulso sessuale, o a particolari rapporti economici e sociali (raccolta, caccia, allevamento, cicli stagionali, rapporto con il capo o con lo straniero, guerra ... ), o alla malattia e alla morte; ma si tratta anche di conflitti morali, di ispirazione poetica, di dubbio logico. Questi momenti sono altrettante possibili occasioni traumatiche per una presenza fragile: l’alta carica passionale che li accompagna e la necessità di “prendere partito”, di impiegare la potenza sintetica e di comportarsi in modo strettamente personale e creativo, possono dar luogo alla disgregazione della presenza. Il contenuto psichico in quistione, invece di essere ricompreso nella unità della presenza, e deciso e oltrepassato in questa unità, tende a isolarsi, a scindersi dalla dinamica psichica: della psiche, a trattenere e a polarizzare in sé l’esserci.
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La perdita della presenza come rischio comporta la esperienza di una spossessione e, al tempo stesso, di una possessione. Vi è un attentato alle radici stesse della personalità, e tale attentato comporta un “essere privato di” e “un essere posseduto da”. Ciò di cui si è privati è la stessa possibilità di esserci in una storia umana, scegliendo valori e oltrepassando situazioni, e ciò da cui si è posseduti è nient’altro che il riflesso esistenziale di questa perdita, che è morte culturale, schiavitù radicale, recessione adialettica della vita spirituale.
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Il crollo della presenza è il rischio di perdere quel centro di iniziativa e di scelta secondo valori che è appunto l’esser presente in quanto potenza che emerge dalla situazione oltrepassandola con la decisione culturale.
Il crollo della presenza come crisi è esperienza di essere-agiti-da: la durata della presenza subisce una interruzione, che al limite è blocco psichico, oppure scarica psicomotoria convulsiva, e che al di qua di questo limite dà luogo alle varie esperienze di occupazione o di assedio, dalla possessione da parte di un’altra personalità alle varie forme di rappresentazioni ossessive e di impulsi coatti.
Il diventare completamente altro da quello che si è, il perdere il proprio essere, è avvertito come rischio estremo, come rischio di non poter essere fedele al destino umano, come catastrofe di sé e del mondo e del loro rapporto operativo: è un alienarsi che viene segnalato come esperienza del tutt’altro, o - per riprendere la terminologia di R. Otto - come esperienza del tremendum. Tuttavia questo tutt’altro ci attira, ci costringe al rapporto nel modo più perentorio: infatti si tratta del noi stessi che si sta smarrendo, e che noi dobbiamo a tutti i costi riprendere in qualche misura, se non vogliamo precipitare nell’attualità della catastrofe. Il piano di configurazione di questo dramma è il “sacro”: il tutt’altro riceve orizzonti in demoni e in dèi, e in azioni destinate al rapporto con essi.
Il sacro è ambivalente perché configura la presenza rimasta prigioniera di conflitti indecisi e perché in forma alienata prospetta il compito di reintegrare se stessa: l’ambivalenza del sacro è tuttavia dinamica, ha cioè un movimento verso la reintegrazione, verso il ridischiudersi di valori. Meglio dunque dire che il Sacro è ambivalenza della alienazione che si apre verso la monovalenza della riappropriazione: un aprirsi che si difende dalla estrema chiusura della crisi irrisolvente, dalla alienazione radicale, e che tuttavia all’altro capo del cammino non trova mai il tutt’altro, ma solo una modalità storica e culturale di essere uomini nel mondo
Il sacro è dinamica ambivalenza della alienazione, che si apre verso la monovalenza della scelta riappropriatrice: e questo aprirsi è difesa dal totale alienarsi, cammino sul piano del tutt’altro che recupera in esso una qualche definita e concreta modalità di essere uomini nel mondo, scegliendo ciò che, prodotto dall’uomo e destinato all’uomo, per l’uomo vale».
Ernesto de Martino
1De Martino E., Storia e metastoria I fondamenti di una teoria del sacro, Argo, Lecce 1995, p. 116-118.