Presenza e perdita della presenza

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Presenza e perdita della presenza1
 
« 1. La presenza è fondamentalmente la capacità di riunire volta a volta nella attualità della coscienza tutte le memorie e le esperienze necessarie per rispondere in modo adeguato a una determinata situa­zione storica, inserendosi attivamente in essa mediante la iniziativa personale, e andando oltre di essa mediante l’azione: al tempo stesso la presenza è capacità di escludere i ricordi che non giovano, cioè inu­tili o indifferenti o dannosi in rapporto alla situazione data e alla esi­genza di iniziativa, di decisione e di scelta che essa comporta. La pre­senza storicamente integrata implica quindi la possibilità di evocare volontariamente le memorie che occorrono per l’azione presente, e di inibire quelle che non giovano, nel che consiste propriamente la vita fisiologica della presenza. Ma che cosa significa “rispondere in modo adeguato a una data situazione storica”? Sarebbe un errore intendere qui tale risposta come semplice adattamento pratico a una situazione esterna: la situazione che sollecita la iniziativa della presenza può esse­re sia “esterna” che “interna” alla presenza stessa, e la iniziativa può essere non soltanto pratica stricto sensu (cioè economica e morale), ma anche in un senso più ampio, in quanto qualificata secondo una delle distinte potenze operative della vita culturale, e quindi anche secondo una delle potenze teoretiche, come l’arte o il logos. La presenza stori­camente integrata si caratterizza pertanto come la possibilità di unifi­care il diverso secondo distinte potenze operative, scegliendo ciò che si deve fare nel momento dato, nel quadro di determinate tradizioni culturali, in coerenza dinamica con il proprio ambiente economico e sociale e con l’educazione ricevuta.
 
2. La perdita della presenza come crisi radicale della presenza stessa si collega a un momento critico dell’esistenza, quando la storicità spor­ge con particolare evidenza, e la presenza è chiamata ad esserci con l’impiego pronto ed adattato della sua capacità di scelta e di decisione. Si tratta di momenti connessi a crisi organiche decisive, come la nascita o la pubertà, la malattia e la morte o a istinti vitali come la fame o l’m­pulso sessuale, o a particolari rapporti economici e sociali (raccolta, caccia, allevamento, cicli stagionali, rapporto con il capo o con lo stra­niero, guerra ... ), o alla malattia e alla morte; ma si tratta anche di con­flitti morali, di ispirazione poetica, di dubbio logico. Questi momenti sono altrettante possibili occasioni traumatiche per una presenza fragi­le: l’alta carica passionale che li accompagna e la necessità di “prendere partito”, di impiegare la potenza sintetica e di comportarsi in modo strettamente personale e creativo, possono dar luogo alla disgregazione della presenza. Il contenuto psichico in quistione, invece di essere ri­compreso nella unità della presenza, e deciso e oltrepassato in questa unità, tende a isolarsi, a scindersi dalla dinamica psichica: della psiche, a trattenere e a polarizzare in sé l’esserci.
 
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La perdita della presenza come rischio comporta la esperienza di una spossessione e, al tempo stesso, di una possessione. Vi è un attenta­to alle radici stesse della personalità, e tale attentato comporta un “esse­re privato di” e “un essere posseduto da”. Ciò di cui si è privati è la stessa possibilità di esserci in una storia umana, scegliendo valori e ol­trepassando situazioni, e ciò da cui si è posseduti è nient’altro che il ri­flesso esistenziale di questa perdita, che è morte culturale, schiavitù ra­dicale, recessione adialettica della vita spirituale.
 
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Il crollo della presenza è il rischio di perdere quel centro di iniziati­va e di scelta secondo valori che è appunto l’esser presente in quanto potenza che emerge dalla situazione oltrepassandola con la decisione culturale.
 
Il crollo della presenza come crisi è esperienza di essere-agiti-da: la durata della presenza subisce una interruzione, che al limite è blocco psichico, oppure scarica psicomotoria convulsiva, e che al di qua di questo limite dà luogo alle varie esperienze di occupazione o di assedio, dalla possessione da parte di un’altra personalità alle varie forme di rap­presentazioni ossessive e di impulsi coatti.
 
Il diventare completamente altro da quello che si è, il perdere il pro­prio essere, è avvertito come rischio estremo, come rischio di non poter essere fedele al destino umano, come catastrofe di sé e del mondo e del loro rapporto operativo: è un alienarsi che viene segnalato come espe­rienza del tutt’altro, o - per riprendere la terminologia di R. Otto - come esperienza del tremendum. Tuttavia questo tutt’altro ci attira, ci costringe al rapporto nel modo più perentorio: infatti si tratta del noi stessi che si sta smarrendo, e che noi dobbiamo a tutti i costi riprendere in qualche misura, se non vogliamo precipitare nell’attualità della catastrofe. Il piano di configurazione di questo dramma è il “sacro”: il tutt’altro riceve oriz­zonti in demoni e in dèi, e in azioni destinate al rapporto con essi.
 
Il sacro è ambivalente perché configura la presenza rimasta prigionie­ra di conflitti indecisi e perché in forma alienata prospetta il compito di reintegrare se stessa: l’ambivalenza del sacro è tuttavia dinamica, ha cioè un movimento verso la reintegrazione, verso il ridischiudersi di valori. Meglio dunque dire che il Sacro è ambivalenza della alienazione che si apre verso la monovalenza della riappropriazione: un aprirsi che si difen­de dalla estrema chiusura della crisi irrisolvente, dalla alienazione radica­le, e che tuttavia all’altro capo del cammino non trova mai il tutt’altro, ma solo una modalità storica e culturale di essere uomini nel mondo
 
Il sacro è dinamica ambivalenza della alienazione, che si apre verso la monovalenza della scelta riappropriatrice: e questo aprirsi è difesa dal totale alienarsi, cammino sul piano del tutt’altro che recupera in esso una qualche definita e concreta modalità di essere uomini nel mondo, scegliendo ciò che, prodotto dall’uomo e destinato all’uomo, per l’uomo vale».
 
Ernesto de Martino
 

1De Martino E., Storia e metastoria I fondamenti di una teoria del sacro, Argo, Lecce 1995, p. 116-118.