Andrello Roberta, Mentre osservo Luca, imparo ad ascoltare me stessa

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Il ruolo chiave dei miei vissuti nella relazione musicoterapica con Luca
 
Il processo musicoterapico individuale si caratterizza per la compresenza di due persone che vi partecipano con tutto il loro essere.
Preoccupato dall’ansia di cogliere tutte le manifestazioni della persona (paziente), molto spesso il musicoterapeuta corre il rischio di “dimenticare” se stesso, quale altra persona coinvolta e polo ricevente di quella che Melanie Klein[1] definisce identificazione proiettiva[2], nella quale, secondo Bion[3], ha le sue basi il controtransfert. In tal modo il musicoterapeuta confonde e scambia per propri i vissuti della persona (paziente), perdendo l’opportunità di sfruttare l’alto valore comunicativo del controtransfert: sapendo separare ciò che lui stesso prova da ciò che la persona (paziente) vuole fargli sentire, invece, il musicoterapeuta si trova nella condizione ideale per entrare in empatia con l’altro (paziente), mantenendo nel contempo un distacco da questi vissuti, necessario per salvaguardare la propria parte  sana.
In quanto uno dei poli diadici coinvolti nella relazione terapeutica, ho ritenuto di fondamentale importanza rivolgere sempre un’attenzione particolare ai miei vissuti, poiché è proprio con essi che ho dovuto “fare i conti” e misurarmi continuamente, fin dalla prima volta che ho visto Luca[4]
Nei fatti, il grande rischio che ho corso è stato quello di essere “accecata” dall’entusiasmo e dalla voglia di effettuare un intervento musicoterapico di questo calibro, innescando in tal modo una sorta di reazione a catena, il cui esito finale era il “non vedere” quanto accadeva. L’euforia e l’entusiasmo coprivano, forse nel tentativo di difendermi, le molteplici emozioni esperite ogni volta che ero in presenza di Luca. Ciò mi impediva di affrontareserenamente le variesituazioni e di dare loro il giusto significato, necessario per proseguire l‘attività senza ostacoli tra me e Luca.
Soprattutto durante le prime osservazioni, quando percepivo la presenza di Luca come fortemente invadente, aggressiva, travolgente e sentivo l’angoscia che il suo comportamento trasmetteva, avevo molta difficoltà ad ammettere di non sentirmi a mio agio, di avere paura di non farcela, di essere inadeguata alla situazione, tant’è che negavo tutto ciò affermando di “stare bene”. Non mi è stato facile, col tempo, ammettere questi stati d’animo, ma posso affermare che questo è stato un primo passo che ho compiuto anche nella direzione della conoscenza di me stessa: grazie a questa esperienza ho avuto modo di  misurarmi con il mio modo di essere, ho imparato a percepire, ad ammettere e poi faticosamente ad accettare le emozioni, in special modo quelle spiacevoli.
Col passare del tempo la loro presenza mi ha fatta sentire sempre più una persona viva, “a tutto tondo”, nonostante fossero comunque dolorose. Durante il tempo trascorso con Luca, dunque, è come se io avessi affinato le mie capacità “autopercettive”, diventando progressivamente più capace di ascoltarmi in tutte le mie sfaccettature. Questa apertura mi ha consentito di avere una maggiore consapevolezza dei movimenti controtransferali, evitandomi così, almeno in parte, di attribuire a Luca emozioni e sensazioni che scaturivano da me e, cosa più importante, mi ha facilitato il difficile compito di riconoscere e di distinguere le situazioni in cui ero oggetto di una identificazione proiettiva da quelle in cui non lo ero.
Prestando una vigile attenzione ai miei vissuti, paradossalmente ho potuto essere più attenta a Luca, imparare a conoscerlo, ma soprattutto a cogliere di volta in volta quanto lui mi trasmetteva attraverso il suo modo di essere e di esprimersi nel contesto musicoterapico, riuscendo così, seppure con molta fatica, a trovare il modo adeguato in quel momento per  “agganciarlo” ed entrare in “contatto” con lui.
Penso che sul piano concreto sia questa l’esperienza che si vive, quando si afferma che ”… nella relazione d’aiuto … lo stesso terapeuta cambia … per diventare un miglior terapeuta.”[5]
In tal caso ho la sensazione di aver appena iniziato un cammino tanto tortuoso quanto affascinante, che probabilmente proseguirà senza fine …
 
Osservare Luca, mantenendo la “giusta distanza”
L’osservazione di Luca è stata non solo la fase durante la quale ho raccolto le informazioni necessarie alla valutazione della necessità dell’intervento musicoterapico e alla sua strutturazione, ma anche un’occasione di riflessione e di crescita personale e professionale.
Se è vero infatti, come affermano Brutti e Scotti, che “ … l’apprendimento dell’osservazione è basato sulla pratica dell’osservazione e non sulla teoria dell’osservazione”[6], la realtà che mi sono trovata ad affrontare è stata un’esperienza importante di apprendimento, durante la quale tutte le nozioni teoriche studiate hanno cominciato a sostanziarsi.
In primo luogo ho sperimentato la necessità e al contempo la difficoltà di prendere come oggetto me stessa, quale condizione necessaria per evitare di parlare, di muovermi, di agire, di interpretare, ovvero di ostacolare l’osservazione, creando invece le  condizioni per raggiungere Luca.
In modo particolare ho vissuto il passaggio dalla teoria alla pratica nella difficile applicazione di quelle che Brutti e Brutti hanno chiamamato ‘regole paradosse’[7], riconoscendo in esse un sostanziamento della ‘reverie’[8][9] materna descritta da Bion:
  • “... calarsi nella situazione con un’attitudine accogliente, senza agire, mantenendo un’attenzione fluttuante;
  • porsi a una giusta distanza dall’oggetto;
  • attivare una visione binoculare;
  • mettere tra parentesi, per quanto possibile, le nostre teorie di riferimento e la nostra esperienza;
  • sospendere ogni giudizio;
  • osservare senza memoria e desiderio;
  • cogliere, oltre il vedere, il non visto.”.
Queste sette regole sono state il mio punto di riferimento nella realizzazione dell’osservazione, ma spesso le particolari situazioni nelle quali mi sono venuta a trovare hanno richiesto molto impegno ed energia per riuscire, anche solo minimamente, a rispettarle.
Le difficoltà maggiori sono state rappresentate dal fatto che inizialmente sentivo il peso dell’invadenza di Luca: era come se lui cercasse di “risucchiarmi”, proiettando in me parti di sé, nel tentativo di controllarmi.
Durante l’osservazione nel contesto educativo, e ancor più in quella musicoterapica, Luca cercava tutte le strategie possibili per farmi giocare, parlare, muovere, ma non liberamente: il suo desiderio insistente era che io facessi ciò che voleva lui, secondo le modalità e nei tempi da lui definiti. Mi sentivo come il “prolungamento del suo braccio”, l’oggetto del suo delirio di onnipotenza.
Queste situazioni mi rendevano molto difficile riuscire a mantenere la “giusta distanza”, a trovare un punto di osservazione dal quale avere una visione chiara e “binoculare”. Fino a che punto ciò che stavo osservando era “offerto” dalla realtà osservata, e cosa, invece, era frutto della mia mente? Le emozioni che provavo erano negative, mi sentivo a disagio, inadeguata, incapace di affrontare la situazione … eppure avevo il forte desiderio di continuare, perché mi rendevo conto che la negatività del mio sentire era in parte una mia personale reazione al comportamento di Luca, in parte qualcosa che Luca metteva dentro di me, ma tutto ciò non coincideva con il mio sé.
In questa complessa situazione il fatto di avere degli indicatori da rilevare ha limitato la mia tendenza iniziale a cercare di dare frettolosamente una spiegazione ad ogni evento sulla base delle teorie apprese, e mi ha facilitata nel prestare maggiore attenzione ad aspetti chiave del comportamento di L. che richiedevano, al di là della pura rilevazione, la mia comprensione.
Seppure con grande sforzo, e grazie al continuo monitoraggio delle mie emozoni, durante ogni seduta di osservazione ho mantenuto la “lucidità” necessaria per trovare una mediazione tra ciò che avrei dovuto fare, nel rispetto delle regole, e le richieste di Luca, in modo da evitare situazioni estreme nelle quali si sarebbe interrotta o addirittura resa impossibile l’osservazione. Ciò mi ha consentito di riuscire a calibrare i miei comportamenti a seconda delle situazioni, pur mantenendo invariati gli indicatori dell’osservazione, della quale è possibile attestare l’attendibilità.

Roberta Andrello

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[1] KLEIN MELANIE, Contributions to Psyco-Analysis,  Hogart Press, London, 1948.
[2] Nell’accezione Kleiniana l’identificazione proiettiva è uno dei meccanismi di difesa messi in atto dal bambino che si trova nella posizione schizoparanoide (prima del quarto mese di vita), quando la visione dell’oggetto è parziale, in quanto esso è scisso in “buono” e “cattivo”, come anche il suo Io.          
Il bambino proietta quindi parti di sé nel corpo materno per poterlo possedere, controllare con la sua presenza e al limite danneggiare.
[3] BION R. WILFRED, Esperienze nei gruppi, Armando, Roma, 1971.
[4] Nome di fantasia in ottemperanza alla legge della privacy.
[5] CHERUBINI G., ZAMBELLI F., La Psicologia dei costrutti personali, ed. Patròn Bologna,1987, p. 40.               
[6] BRUTTI CARLO, SCOTTI FRANCESCO, Osservazione-conflitto-bisogni, in: Quaderni di psicoterapia infantile, n.4, Borla, Roma, 1981, p. 27.
[7] BRUTTI CARLO e RITA, “ Uso e abuso dell’osservazione”, in: Quaderni di psicoterapia infantile, n.33, Borla, Roma, 1996, pp. 16-17.
[8] Con “reverie” materna, Bion intende l’attitudine materna in grado di cogliere la proiezione del bambino, capire cosa egli prova e rispondere in modo idoneo; la madre quindi raccoglie e contiene gli elementi che il bambino ha proiettato e li restituisce spogliati degli aspetti più insostenibili, in modo che il bambino possa cominciare a contenere sentimenti sgradevoli, in una forma per lui tollerabile.
[9] BION R. WILFRED, Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico, Armando, Roma, 1970.