Converso Astrid, Emozioni vissute e condivise nel tempo dell’incontro con Marcello

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Nonostante che all’apparenza sembrasse una persona gentile e sorridente, Marcello[1]  non si lasciava avvicinare da nessuno.
Per tutto il primo ciclo dei trattamenti musicoterapici (un anno), Marcello si manteneva lontano dagli strumenti e da me in modo tale che non lo potessi toccare nemmeno  accidentalmente.
Se durante i trattamenti lo sfioravo casualmente, lui immediatamente si ritraeva, si girava dall’altra parte o si allontanava dalla sedia, come se volesse scappare.
Suonava alcuni strumenti musicali, variandoli in continuazione, scegliendo ora i tamburi, ora i sonagli con anelli,  oppure percuoteva le piastre dello xilofono.
Gli strumenti li prendeva con una tale rapidità che a fatica riuscivo a osservare il suo spostamento.
Non mi guardava mai in volto.
Se provavo a guardarlo alzava gli occhi al cielo sbuffando, ridendo, guardandomi di sbieco  come per farmi capire che non era pronto, non in quel momento.
Probabilmente il contatto visivo, per lui, era ancora troppo intenso.
Chiaramente mi sentivo angosciata per il suo comportamento, non riuscivo ad entrare nel suo “guscio”.
Se stavamo suonando o ascoltando musica, o “accompagnando” un brano musicale che avevo deciso di far ascoltare, Marcello interrompeva continuamente l’attività, parlando di tutt’altro, raccontandomi cosa aveva mangiato  a pranzo o dove doveva andare al termine della giornata “comunitaria”.
Io non sapevo che fare.
Mi sembrava, “tutto”, una grande perdita di tempo.
Marcello era fin troppo loquace.
Ero sempre più in allerta, ormai era passato un anno e la situazione non accennava a migliorare, sentivo il mio lavoro un completo fallimento, e più continuavano queste sedute di “vuoto terapeutico e vuoto musicale”, più il tempo con lui diventava insostenibile, e mi ritrovavo a guardare l’orologio ogni dieci minuti.
Non ero ancora riuscita a “comprenderlo”, c’erano molti aspetti di lui che mi erano oscuri.
Sapevo che in lui c’era molto, ma non sapevo qualitativamente determinarlo.
Non c’era nessuna “scintilla d’intesa”, nessuna “lampadina accesa”.
Se non c’era la musica come supporto, iniziava a parlare incessantemente, di tutto ciò che aveva fatto; che faceva e che avrebbe fatto nel corso della giornata.
Anche se c’era musica agiva in uguale maniera, ma la frequenza dell’eloquio si riduceva.
Talvolta, con il capo chino, percuoteva due tamburi, suonandoli con tanta veemenza che avevo timore che si facesse male.
Non riuscivo a farlo smettere nemmeno, catturandolo con il suono di qualche strumento.
Mi sentivo inadeguata.
Ero arrivata alla conclusione che sicuramente alla base del mio intervento ci fosse qualcosa che non andava.
Sapevo che Marcello aveva una sua musica preferita, un cantautore preferito, ma lui non se lo ricordava.
Tramite la psicologa, chiesi alla famiglia, non molto collaborante,  informazioni inerenti i gusti musicali di Marcello.
Dopo un interminabile tempo ottenni ciò che per me in seguito si trasformò in “oro colato” .
A Marcello piaceva moltissimo Adriano Celentano, ma non sapevo quale fosse la sua canzone preferita.
Provai subito a proporgli numerosi ascolti e vidi subito che il suo interesse iniziò a mutare, a crescere.
Mi guardava in modo differente, come se avessi trovato la prima di una lunga serie di “serrature d’accesso” per mettermi in comunicazione con lui.
Tutto questo non bastava, finiva la canzone, e lui tornava nel suo stato di ombrosa diffidenza.
Pensavo che fosse tutto tempo sprecato, lui non collaborava, io non riuscivo, se non attraverso minime cose, ad entrare in contatto con lui.
Non mi sentivo all’altezza del compito, l’attesa era snervante, soprattutto nei confronti del personale comunitario.
In sede d’équipe ogni volta che si presentava il “caso” clinico di Marcello, mi sentivo a disagio, potevo dire che da quando avevo iniziato era rimasto tutto immutato?
Che non ero riuscita ad aprire una “piccola breccia” nella sua dura corazza?
Che dopo tutto questo tempo non si riscontrava nessun tipo di risultato?
Nel frattempo continuavo a provare con innumerevoli proposte musicali inerenti Celentano, fino a quando trovai la fatidica canzone: il brano che avrebbe cambiato il processo musicoterapico:
“Quello che non ti ho detto mai” (di Celentano A., Mogol e Bella G.),
 
Quello che non ti ho detto mai
Adriano Celentano
Mogol - Bella
Non ti ho detto mai
veramente quello che tu sei per me
è difficile spiegare quello che
ti riempie gli occhi e il cuore
e dà senso alla tua vita.

Nessun uomo, sai
e nessuna donna può dividerci
è una palla di cemento oramai
questo nostro sentimento
che stringiamo tra le dita.

Questi giorni sai
belli o brutti sono sempre belli e noi
siamo pieni di incertezze ma ci sei
con le tue carezze, tu...
A volte in mezzo al mare anche noi
rischiamo di affogare dentro ai guai
ci sappiamo consolare, come sai
rimanendo lì distesi
ad occhi chiusi
ad una nuvola appesi.

Io non so se poi
il destino avrà un suo ruolo su di noi
tale da riuscire a separarci o no
ma io prego sin da adesso
che il futuro sia lo stesso.

Ma se un bivio un dì
ci aspettasse per dividerci così
che restassimo da soli
tu già sai che vivrei per aspettarti
io ti proteggerei lo sai
con il vento piano ti accarezzerei
con il primo raggio io ti sveglierei
ed io spero di saperti
lì con qualcuno, che possa amarti.
 
 
Durante l’audizione, per la prima volta, Marcello iniziò a canticchiare qualcosa guardandomi negli occhi.
Furono piccoli, brevi momenti, ma molto intensi.
La cosa che mi incuriosì più di tutte fu il testo, così particolare e anche leggermente ambiguo.
Nella canzone si parla dell’amore tra un uomo e una donna, certo, ma quando la cantava Marcello, sembrava che la cantasse al fratello morto.
Così, per la prima volta si confidò e mi parlò di suo fratello; di come era morto e di quando sarebbe andato al cimitero con la madre a trovarlo.
Rimasi allibita, Marcello si stava confidando con me?
“Avevo il cuore che batteva a mille”.  
Non solo, ma Marcello aveva paura.
In particolare era terrorizzato che il tempo potesse scorrere inesorabilmente, giungendo verso la morte.
Ogni volta che si avvicina il suo compleanno manifestava uno stato di profondo malessere: si incupiva e ripeteva incessantemente, quasi fosse una stereotipia: “… sono vecchio… il tempo passa, … arriverà la morte… tutti invecchiano prima o poi vero?”
Prima non c’era alcun modo di rassicurarlo.
Lentamente, con dolcezza e pazienza, sono riuscita a stabilire anche un minino dialogo dove riuscivamo a parlare non solo del fratello, ma anche di altre tematiche a lui particolarmente care e, in particolare, il tempo e   la morte.
Sono riuscita  a rassicurarlo e penso che mi abbia ascoltato poiché le sedute successive si prospettarono in modo molto diverso.
Non si alzava continuamente per raggiungere la finestra, ma rimaneva più vicino a me senza allontanarsi di scatto e usava gli strumenti in maniera costruttiva.
La paura di invecchiare era sempre presente, ma in modo maggiormente più contenuto.
In una incontro d’équipe, la psicologa manifestò la sua soddisfazione, rivelando come le sedute di musicoterapia fossero state d’aiuto a Marcello.
Era nota a tutti l’irruenza di Marcello, ma da quando aveva iniziato il trattamento con me  la sua aggressività era diminuita.
La Psicologa mi disse che aveva notato che Marcello aveva imparato a riversare la sua collera non più sulle persone, ma sugli oggetti.
Al riguardo, la collega raccontò un episodio da lei vissuto in prima persona.
In uno scatto d’ira, Marcello aveva cercato di colpire la psicologa e alcuni ragazzi della comunità, ma, all’ultimo momento, scaricò la sua collera colpendo gli armadietti.
Il fatto in sé poteva essere letto come un episodio accidentale, ma il fatto eccezionale e “nuovo” era la canalizzazione della scarica aggressiva di Marcello.
Mi venne subito in mente l’attività  che avevo cercato di fare con lui.
Suonavamo tamburi, bonghi e cembali, cercando, quando Marcello li percuoteva, di imitare la sua forza, per poi incanalarla e riportarla da un livello meno intenso.
Quindi tutto questo tempo non era andato perso?
Quindi in tutto questo tempo lui mi aveva seguito?
Io avevo avuto forse troppa poca pazienza; non avevo saputo aspettare i suoi tempi?
Doveva essere andata così, perché nonostante fossi poco paziente e l’attesa ogni volta era pesante da sopportare, non mi sono mai stancata di stargli vicino, ho sempre cercato di dare il massimo, e non mi sono mai arresa.
Le sedute finirono poco prima della pausa estiva e, all’ultimo incontro, Marcello mi fece un regalo davvero prezioso, che mi lasciò senza parole… una cosa che penso non facesse da molto tempo soprattutto nell’ambiente della comunità…:
mi abbracciò.
Riflettendo sul mio percorso a fianco di Marcello, mi sono giunti in mente i mille dubbi, i mille interrogativi sul tempo, sull’ attesa e sulla pazienza.
La percezione che abbiamo del tempo determina profondamente il nostro modo di agire.
A volte si percepisce il passare del tempo come più rapido per cui "il tempo vola", significando che la durata appare inferiore a quanto è in realtà; al contrario accade anche di percepire il passare del tempo come più lento "non finisce mai".
Il primo caso viene associato a situazioni piacevoli, o di grande occupazione, mentre il secondo si applica a situazioni meno interessanti o di attesa (noia), quest’ultimo mi ricorda molto il mio incessante guardare l’orologio per constatare la fine dell’incontro.
A volte avvertiamo in modo più o meno rapido il passaggio del tempo, ma il tempo non può essere toccato, e ovviamente non emette né suoni né odori.
Del tempo si può parlare in molti modi, il tempo ci trasforma continuamente.
Mutano le nostre fattezze e anche dentro di noi avvengono continui cambiamenti.
Forse la vera saggezza sta nel porsi dalla parte del bisogno, che muta di continuo, cercando di risolverlo in modo adeguato alle esigenze umane, dando per scontato che ad ogni bisogno risolto se ne porrà un altro.
In tal senso il tempo che bisogna vivere è solo il presente.
È proprio nel “qui” ed “ora”, nel “presente”, dell’incontro musicoterapico che vivevamo, nella lunga fase iniziale, la nostra dimensione temporale.
Paradossalmente, io e Marcello eravamo intenti a cercare il nostro tempo: “… la forma del senso interno, ossia l'in­tuizione di noi stessi e del nostro stato interno…”[2](E. Kant).
Solo nella seconda fase del trattamento con Marcello quando, grazie all’adozione della canzone di A. Celentano  “Quello che non ti ho detto mai”, abbiamo condiviso il tempo, e Marcello ha comunicato i suoi sentimenti.  
Ciò è stato raggiunto poiché “… nessuna delle cose più grandi si realizza di colpo, non più di quanto accada per un grappolo d’uva o un fico.
Se mi dici che desideri un fico, ti rispondo che bisogna dargli tempo.
 Lasciare che l’albero fiorisca, poi che faccia il frutto, e poi che questo maturi.”[3] (Epitteto)
Quando alla fine l’albero matura, ottieni i frutti, non  importa se la stagione è stata dura, se l’inverno è stato rigido; se il terreno è buono e fertile basta avere pazienza e alla fine il frutto lo ottieni, e devo dire che il mio frutto è maturato.
Con Marcello ho imparato ad avere pazienza, a saper aspettare, a dare un po’ di tempo alle persone che mi circondano, perché ho capito che non tutti hanno gli stessi archi temporali determinati.
A volte bisogna sedersi e aspettare poiché “… Il tempo spiegherà tutto.
È un chiacchierone, e non ha bisogno di essere interrogato per parlare.”[4] (Euripide)
Ripensando al processo terapeutico intrapreso con Marcello, posso affermare che è stata un’esperienza difficile.
Per me che mi baso molto sul contatto fisico, trovarmi di fronte ad una persona che non tollera il contatto, mi ha subito destabilizzata.
Lavorare con una persona che si allontana fisicamente o mentalmente e non é più presente, ma si colloca in un altro luogo, mi ha fatto rivalutare tutto il mio lavoro sin dal principio.
È  stato bello constatare come una persona cresce e matura anche grazie a te, che si apre, si confida e in qualche modo riesce a incanalare i suoi problemi attraverso strumenti che tu hai fornito.
In tutto questo le tre parole chiave sono: TEMPO, ATTESA e PAZIENZA.
Non tutte le attese sono angoscianti, e molte non lo sono affatto, ma la semplice consapevolezza della necessità della conclusione ci mette in uno stato di tensione, ogni volta che la conclusione tarda rispetto alle nostre aspettative.
Riuscire a capire quando è il momento di fermarsi, di attendere, e invece quando è il momento di ripartire, non è semplice.
Capire i propri bisogni e quelli dell’altro, capire quando entrare in gioco, e quando starsene in “panchina”.
Professionalmente sono cresciuta molto a fianco di Marcello, non credevo di riuscire ad ottenere questi risultati.
Bisogna tuttavia saper ascoltare, registrare ogni passo, ogni piccolo, malgrado apparentemente inutile, segno, solo così si potrà disporre di tutti gli strumenti necessari per aiutare l’altro.

 

Astrid Converso

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[1] Nome di fantasia; in ottemperanza alla  legge della privacy.
[2] Kant E.  “Critica della Ragion pura”, sesta edizione, Laterza, Bari, 1977, p. 77.
[3] Epitteto  “Massime di saggezza per la vita di tutti i giorni” Newton & Compton Editori, 2003, pp. 67/68.
[4] Euripide “Massime di saggezza per la vita di tutti i giorni” Newton & Compton Editori, 2003, p. 76.