Deodato Rosaria, L’evoluzione del processo musicoterapico con Walter
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- Categoria: ESPERIENZE
- Pubblicato Mercoledì, 09 Febbraio 2011 08:47
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In ascolto
Al fine di favorire il massimo adattamento di Walter (nome di fantasia, in ottemperanza alla legge della privacy) all’ambiente, durante le sedute iniziali ho mantenuto un’organizzazione dell’habitat musicoterapico pressoché stabile. La piccola aula era gradevole, ma sovraccarica di stimoli: disegni dei bambini appesi alle pareti, giochi, palle per rotolare e cerchi. Walter permaneva a lungo (30’- 40’) nella stanza, assumendo differenti posture, eretta e in movimento, sdraiata a terra o sulle palle per rotolare. Fortunatamente, dopo i tre incontri iniziali, per innumerevoli ragioni didattiche, la stanza non è stata più disponibile. L’unico ambiente agibile era l’aula della classe in cui Walter era inserito, mentre i compagni svolgevano l’attività motoria in palestra. Titubante ho dovuto fare di necessità virtù e, per fortuna, il cambiamento si è rivelato positivo perché, riorganizzando l’ambiente, avevo individuato essenzialmente due spazi: uno esclusivo e privato, in cui Walter relazionava con sé, l’altro in cui avevano luogo le nostre relazioni sonoro – musicali. Nel pormi in relazione con Walter, cercavo di “…essere autentica[1]…”, ascoltando, con la massima attenzione, i miei vissuti per riconoscergli, accoglierli. In questa prospettiva cercavo “… di prestare attenzione all’altro, rimanendo in stato disteso e rilassato, per un congruo periodo di tempo[2]…” Per me non era facile accogliere le mie emozioni e sensazioni, cercando di distinguere ciò che provavo io durante la situazione da ciò che l’altro mi comunicava. In ogni caso cercavo di ascoltare me, al meglio delle mie possibilità, al fine di ascoltare l’altro, “… accettare così com’è [3]…, quanto proponeva, astenendomi da ogni giudizio, interpretazione e richiesta, dandogli valore, fiducia nelle sue risorse e potenzialità. Cercavo quindi di entrare in risonanza con le emozioni del bambino, utilizzando in modo prevalente e costante la mia voce. Mediante la mia voce, i miei occhi, il mio corpo attuavo la «… calibrazione…»[4]. Osservavo e, in un certo senso, ricantavo gli aspetti non verbali della comunicazione di Walter. Le tensioni emotive, manifestate da Walter con: peregrinazioni, posture erette, uscite, si placavano momentaneamente, quando Walter si sedeva sulle mie ginocchia e suonava la tastiera. Io improvvisavo un vocalizzo oscillante tra la “o” e la “e”, dell’ampiezza di un intervallo di terza minore ascendente e discendente, nell’ambito dell’ottava centrale. Cercavo di rasserenare Walter, utilizzando l’espressione vocale che avevo rilevato nella fase d’osservazione musicoterapica e, con mio stupore, aveva per Walter un effetto benefico. In sede di supervisione, la lettura dei dati rilevati evidenziava l’aspetto dinamico del trattamento, denotato dalle innumerevoli non costanti. Per Walter il tempo, lo spazio e le relazioni erano, probabilmente, vissuti ancora in modo tensivo. Da parte mia percepivo il carico emotivo di dover stare in ascolto di forti emozioni che, per il momento, non avevano nome.
Relazioni... sonoro-musicali
Nella fase intermedia, al fine di migliorare il processo musicoterapico, volevo introdurre alcuni cambiamenti, cercando di non stravolgere l’ambiente. In questa prospettiva ho mantenuto l’organico strumentale e l’organizzazione dell’ambiente, mentre ho apportato alcune, ponderate, variazioni all’arredo e agli ascolti musicali. In sede di supervisione, l’analisi particolareggiata dei miei vissuti, esperiti durante le sedute, ha permesso di rilevare e valutare la mia autostima. In particolare il costante senso di sicurezza (adeguatezza), che provavo durante le sedute, favoriva l’ascolto (accoglienza) del bambino. Ero maggiormente disponibile ad un nuovo suo avvicinamento, senza cercarlo. Parimenti riuscivo a chiudere l’incontro, vivendo questo momento con minor ansia. Riuscivo altresì ad accogliere l’angoscia di Walter quando fuggiva dalla stanza. Ascoltavo le sue grida, lo raggiungevo nel corridoio e, richiamandolo per nome con forte intensità, mi dava la mano, rientravamo nella stanza e, a questo punto, dopo averlo affettuosamente salutato, chiudevo l’incontro. Poco dopo Walter usciva ed era calmo. In tal modo ho compreso la difficoltà e la fatica di essere per lui un punto di riferimento adeguato, anche nei momenti di crisi. Dal punto di vista relazionale, l’intervento si è basato sul gioco, «… gioco nella sua integrità e autenticità, libero da riduttività o dal fatto che possa essere finalizzato ad altro, gioco attuato per il piacere di condividere un’esperienza insieme…»[5]. Io interagivo con la dimensione sonoro-musicale di Walter: improvvisavo con la tastiera, con il tamburo e con gli altri strumentini, accompagnandoli con la voce. Rispecchiavo tempo–durata, pulsazione, ritmo ed energia delle espressioni del bambino (uso degli strumenti, movimenti, stereotipie), dando ad esse un valore affettivo- comunicativo. Non parlavo ma creavo sul momento canzoni che descrivevano ciò che Walter faceva. Lo chiamavo per nome, gli comunicavo la mia presenza: fiducia, accettazione e positività. Con il ritmo delle parole, l’intensità e la melodia cercavo di seguire ciò coglievo nella calibrazione della fisiologia del bambino. Alcune canzoni sono rimaste delle costanti negli incontri, rappresentando un momento di familiarità. Quando il bambino era seduto a cavallo su di me alla tastiera e io mi fermavo, prendeva la mia mano e la portava sui tasti perché continuassi il gioco. Egli dunque, a suo modo, ascoltava. Lentamente continuavo a combaciare e andare al passo con lui, improvvisando (matching epacing), mentre introducevo nel gioco la variazione (leading) e l’equilibrio tra familiarità e novità, prevedibilità e imprevedibilità, conferma e accoglienza del sé del bambino, sollecitazione al suo aprirsi all’altro da sé. Con il ricalco «matching» (combaciare) e «pacing» (andare al passo) creavano il rapporto di fiducia in equilibrio con il «leading[6]» (guida), introducendo variazioni e novità che favorivano il processo di differenziazione, non confusione tra me e Walter. Prima di introdurre elementi di variazione combaciavo, facendo attenzione ai feedback di Walter (calibrazione), che mi comunicavano, istante per istante, fino a che punto era importante mantenere e intensificare il ricalco e fino a che punto potevo attuare il leading. Utilizzando comunicazioni familiari ottenevo, in Walter, sicurezza, creando la «base sicura»[7], mentre quando introducevo novità alimentavo la curiosità, attirando l’attenzione verso il mondo esterno, me. Nel dialogo emergevano altri due importanti parametri, l’alternanza dei turni che implicava l’ascolto, l’accoglienza di quanto Walter mi comunicava, e la pertinenza del tempo di risposta. Pian piano scoprivo che nostro il corpo era il prezioso mediatore delle nostre relazioni. Mentre Walter era a cavallo su di me e percuoteva con forte intensità il tamburo, ho cominciato a rispondere non più solo con accordi della tastiera, ma facendogli fare il cavalluccio sulle mie ginocchia e sentire, attraverso il corpo e la mia voce, la stessa pulsazione e intensità dei suoi colpi. Il gioco si ripeteva con delle variazioni quali il salto e il solletico sulla pancia. Walter rideva e la sua risata si udiva chiaramente. La cosa più importante è che lui percuoteva il tamburo girando contemporaneamente gli occhi verso di me, con un’intenzione precisa perché aspettava la mia risposta, forse abbozzava una breve, inattesa, relazione sonoro-musicale. Nel gioco ho introdotto variazioni dinamiche quando il bambino, in un attimo di esitazione perché guardava me, sfiorava il tamburo io rallentavo la velocità del movimento delle mie gambe. Allo stesso modo quando Walter, toccando tutti i pulsanti della tastiera, azionava l’accompagnamento ritmico (croma, croma, semiminima), che lo aveva sempre spaventato, io improvvisavo vocalizzi o interrompevo la musica per creare il silenzio, l’attesa e mantenere viva la sua attenzione. Walter non aveva più paura e iniziava a premere il pulsante. Così il gioco era guidato un po’ da me un po’ da lui. In queste relazioni sonoro-musicali il bambino non eseguiva le sue solite stereotipie. Il “gioco del cavalluccio con variazioni” è diventato evento familiare nei nostri incontri, così come la canzone che lo precedeva: “Walter suona il tamburo…bum!” (salto sulle ginocchia).
Relazioni affettive condivise
In relazione ai positivi, seppur limitati, risultati ottenuti nella precedente fase, nel processo finale volevo approfondire l’aspetto relazionale che assumeva, da parte mia, una connotazione materna. In questa prospettiva, poiché l’organizzazione dell’ambiente musicoterapico soddisfaceva entrambe, non ho apportato cambiamenti. La presenza, la serenità, l’accoglienza e l’adeguatezza, da me provate costantemente durante ciascun incontro, mi permettevano di interagire al meglio con Walter. Mediati dai nostri corpi e dalla voce, i “nostri dialoghi” rievocavano ciò che avveniva “… tra madre e bambino prima che questi acquisisca il linguaggio…”[8]. Agivamo ciascuno ai segnali dell’altro, improvvisando, influenzandoci reciprocamente. Io non sapevo come rispondeva Walter alle mie sollecitazioni. Talvolta cambiava espressione, si ritirava dentro se stesso o era attratto da un oggetto esterno. Mi lasciavo guidare, modulando i miei comportamenti su quelli di Walter, così apprendevo man mano a conoscerlo, ad anticiparlo sempre meglio e a rispondere in modo adeguato. Svolgevo, al meglio delle mie possibilità, una funzione analoga a quella originariamente svolta dalla madre, di «organizzazione dei comportamenti spontanei del bambino»[9]. Talvolta cercavo di diventare uno «specchio biologico»[10] per il bambino. Pazientemente cercavo di trasformare le comunicazioni sonore casuali di Walter in qualcosa di maggiormente strutturato. Personalmente ho riscontrato un’analogia tra le affermazioni di Scardovelli, riguardanti la relazione madre-bambino, e gli elementi più primitivi della comunicazione evidenziati dalle ricerche svolte da Daniel Stern. Secondo Stern, il bambino nei primi due mesi ha la capacità non consapevole e innata, detta percezione amodale, di cogliere forma (caratteristiche spaziali), intensità e tempo (pulsazione, durata e ritmo) che Stern chiama «le qualità più globali dell’esperienza»[11], e di trasferirle da una modalità sensoriale all’altra. Le varie esperienze vengono così messe in relazione e attraverso la rilevazione di queste costanti, il bambino sperimenta l’emergere del sé e complementarmente dell’altro da sé. Allo stesso modo il bambino coglie nei comportamenti e nei sentimenti il modo, il come, cioè gli «affetti vitali»[12], ad esempio esplodere, crescendo, decrescendo, svanire, trascorrere. Questo «senso del sé emergente»[13] coesiste con i successivi sensi del sé che si vanno formando, proprietà diverse dell’esperienza del sé, ciascuna della quali perdura tutta la vita. Tra i due e i sei mesi si forma il «sé nucleare o fisico»[14] e complementarmente il senso dell’altro nucleare, interlocutore separato da sé: il bambino fa esperienza di «essere con un altro regolatore del sè»[15]. In questo periodo i genitori presentano comportamenti tipici come il linguaggio e le facce infantili. I giochi seguono il modello del “tema con variazioni”, che mantiene l’attenzione del bambino (variazioni), il quale può anche identificare le caratteristiche costanti nei comportamenti interpersonali (familiarità). Il livello di eccitazione del bambino è regolato reciprocamente da madre e bambino. Questi infatti gira lo sguardo per interrompere una stimolazione eccessiva e attraverso smorfie e sguardi ricerca nuovi e più alti livelli di eccitazione. Si può pensare dunque che il bambino senta la presenza dell’altro come separato e la propria capacità di modificarne il comportamento. Successivamente tra il settimo e il nono mese il bambino si accorge, sempre senza esserne necessariamente consapevole, che gli altri pur separati e distinti da lui, possono avere uno stato mentale simile al suo. Egli diviene in grado di condividere l’esperienza soggettiva.
Appare così l’«intersoggettività»[16] caratterizzata da:
- compartecipazione dell’attenzione, che conduce gradualmente all’attenzione congiunta: il bambino sente di poter concentrare la sua attenzione su un obiettivo e che anche la madre può farlo;
- compartecipazione delle intenzioni, che implica la volontà e non casualità dei gesti-comunicazione: il bambino attribuisce all’altro la comprensione della sua intenzione e la volontà di soddisfarla;
- compartecipazione degli affetti, condivisione di un’emozione o di uno stato d’animo.
Nelle sintonizzazioni affettive la madre legge i sentimenti del bambino nei suoi comportamenti manifesti e risponde per via transmodale, cogliendo sempre forma, intensità e tempo. Ad esempio ad un movimento del bambino segue la risposta della madre che con la voce ne rispecchia lo sforzo fisico. Nelle sintonizzazioni di comunione, la madre “è con” il bambino, partecipa, condivide. Nelle sintonizzazioni volutamente imperfette la madre varia intensità, tempo e forma del proprio comportamento, provocando l’interruzione o la modificazione di quello del bambino che coglie così somiglianze e differenze. Le funzioni del sé individuate da Stern e riguardanti i primi mesi di vita nello sviluppo normale, preverbale e non consapevole, corrispondono ad alcune modalità di funzionamento dei bambini autistici, come se questi si fossero fermati lì. Io stessa ho colto analogie con quanto accadeva negli incontri di musicoterapia con Walter. In particolare è significativo che le qualità cui si riferisce Stern sono decodificabili in modo naturale prescindendo dal livello di sviluppo affettivo e cognitivo e costituiscono la struttura stessa della musica e del suono. «L’apertura di un canale di comunicazione con il bambino autistico sembra derivare dalla capacità del suono e della musica di riattivare queste modalità di relazione arcaiche ma ancora presenti nel terapista e nel bambino»[17]. Possiamo dunque dire che «creando una situazione con il soggetto autistico che rispecchi la precoce interazione tra il neonato e chi se ne prende cura, si rivivono le primissime interazioni sociali fondamentali»[18] e ancora che «iniziare il processo comunicativo dando significato alle espressioni non comunicative del bambino è la base per lo sviluppo del linguaggio normale e della comunicazione»[19].
Deodato Rosaria
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[1] Rogers Carl R., (1993), Un modo di essere, Firenze, Martinelli, p. 101.
[2] Scardovelli Mauro, (1992),Il dialogo sonoro, Bologna, Cappelli, p. 51.
[3] Rogers Carl R., (1993), Un modo di essere, Firenze, Martinelli, p. 101.
[4] Scardovelli Mauro, (1992), Il dialogo sonoro, Bologna, Cappelli, p. 67.
[5] Cremaschi Trovesi Giulia, (1996), Musicoterapia, arte della comunicazione, Roma, Edizioni Scientifiche Magi, p. 124.
[6] Scardovelli Mauro, (1992),Il dialogo sonoro, Bologna, Cappelli, p. 68.
[7] Bowlby John, (1982), Costruzione e rottura dei legami affettivi, Raffaello Cortina, Milano, p. 109.
[8] Scardovelli Mauro, (1992), Il dialogo sonoro, Bologna, Cappelli, p. 12.
[9] Scardovelli Mauro, (1992), Il dialogo sonoro, Bologna, Cappelli, p. 45.
[10] Scardovelli Mauro, (1992), Il dialogo sonoro, Bologna, Cappelli, p. 46.
[11] Stern Daniel N., (1987), Il mondo interpersonale del bambino, Torino, Bollati Boringhieri, p. 67.
[12] Stern Daniel N., (1987), Il mondo interpersonale del bambino, Torino, Bollati Boringhieri, p. 69.
[13] Stern Daniel N., (1987), Il mondo interpersonale del bambino, Torino, Bollati Boringhieri, p. 75.
[14] Stern Daniel N., (1987), Il mondo interpersonale del bambino, Torino, Bollati Boringhieri, p. 111.
[15] Stern Daniel N., (1987), Il mondo interpersonale del bambino, Torino, Bollati Boringhieri, p. 116.
[16] Stern Daniel N., (1987), Il mondo interpersonale del bambino, Torino, Bollati Boringhieri, p. 134.
[17] D’Ulisse M. Emerenziana, Polcaro Federica, a cura di, (2000), Musicoterapia e autismo, Roma, Phoenix, p. 27.
[18] Jordan Rita, Powell Stuart, (1997), Autismo e intervento educativo. Comunicazione, emotività e pensiero, Trento, Erickson, p. 65.
[19] Jordan Rita, Powell Stuart, (1997), Autismo e intervento educativo. Comunicazione, emotività e pensiero, Trento, Erickson, p. 89.