Andrello Roberta, Dalla teoria alla prassi: l’intervento musicoterapico con Luca

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Prologo
Nel settembre 1999, la Direttrice Didattica di una scuola elementare in provincia di Varese mi ha chiesto di valutare la possibilità di prendere in carico un bambino di sette anni, iscritto alla classe seconda, per un trattamento musicoterapico.
Si trattava della mia prima esperienza sul campo, pertanto se da un lato ero entusiasta all’idea di accettare, dall’altra si ponevano una serie di difficoltà da affrontare, che un po’ mi spaventavano.
La prima decisione importante da prendere riguardava la valutazione della necessità e dell’adeguatezza di tale intervento, alla quale potevo arrivare solo dopo un colloquio con lo psicologo che aveva in carico il bambino e dopo un’attenta osservazione, condotta secondo le linee previste dal metodo musicoterapico che avrei deciso di adottare.
Avendo avuto il parere favorevole dello psicologo, dovevo necessariamente operare una scelta tra le diverse metodologie musicoterapiche che conoscevo.
I criteri in base ai quali ho deciso di applicare la metodica musicoterapica relazionale individuale ideata da G. Bonardi* sono tre:
  • questa metodica è in linea col mio modo di intendere la musicoterapia;

  • soddisfa un mio personale bisogno di chiarezza e in

  • questo modo mi dà maggior sicurezza;

  • partendo dalla considerazione che la prassi musicoterapica relazionale individuale è rivolta a pazienti che hanno problemi di adattamento temporale e/o spaziale e/o ridotte o assenti capacità relazionali, ho pensato che tra i metodi musicoterapici che conoscevo, questa fosse la metodica che sembrava adattarsi più esplicitamente alle caratteristiche e alle esigenze del caso in esame.

Un inizio difficoltoso
La scelta della metodica era di fatto solo l’inizio di un lungo cammino, che non poteva continuare senza prima risolvere alcuni problemi concreti.
In  particolare sono quattro gli ostacoli che ho dovuto affrontare:
 
  • far accettare la mia presenza ai genitori tenendo conto della difficoltà che avevano a rendersi conto ed in parte ad accettare le reali problematiche del figlio e rispettando quindi i loro sentimenti;

  • far accettare la mia presenza alle insegnanti conquistando gradatamente la loro fiducia, in modo che non vivessero la mia presenza come minacciosa per la loro autostima personale e professionale;

  • trovare una stanza che potesse diventare il luogo fisso in cui svolgere l’attività musicoterapica con Luca, in un edificio in cui tutte le aule, o quasi, erano già occupate;

  • definire un momento che andasse bene per tutti, durante il quale effettuare le sedute.

La fiducia ed il supporto della Direttrice Didattica sono stati per me un grande aiuto, soprattutto nella risoluzione dei problemi logistici.
Inizialmente il Capo d’Istituto ha convocato le insegnanti per presentare loro questo intervento, prospettato come complementare a quello dello psicologo e a quello educativo, poi mi ha autorizzata ad utilizzare un’aula della scuola, al momento sfruttata come “ripostiglio”, dando ordini ai bidelli che la vuotassero e la pulissero, rendendola quanto meno “agibile”.
Tuttavia sentivo di essere io in gioco in prima persona e su di me ricadevano le responsabilità di ogni scelta e di ogni azione, pertanto dovevo trovare il modo di  guadagnarmi la fiducia delle persone coinvolte.
Prima di  presentarmi ai genitori di Luca1 e di iniziare qualunque tipo di osservazione, ho ritenuto opportuno parlare con le insegnanti, poiché avevano mostrato un atteggiamento ambivalente alla proposta della Direttrice Didattica.
Se da una parte, infatti, erano ansiose di ricevere un aiuto da parte di figure che in qualche modo potessero occuparsi di Luca, dall’altra tuttavia erano preoccupate dal fatto che altre persone, oltre a loro, entrassero nella classe. Non solo, ma la parola “musicoterapia” era per loro al contempo piena e vuota di significato: la associavano in linea di massima alla didattica della musica, ma erano consapevoli del fatto che si trattasse di qualcosa di un po’ diverso, che però non sapevano definire.
Il problema principale era rappresentato in particolare da una di loro, che mostrava evidente scetticismo e diffidenza e tentava in tutti i modi di ostacolare la realizzazione del mio intervento.
Lo scopo dell’incontro con le insegnanti era dunque quello di chiarire cosa fosse la musicoterapia e in quale modo si sarebbe articolata, almeno inizialmente, la mia presenza.
Ho sottolineato loro quanto fosse importante per me osservare Luca in classe, rassicurandole sul fatto che l’oggetto di osservazione non erano loro, bensì Luca, in modo che le loro ansie e la paura di essere giudicate potessero essere ridotte quanto più possibile ed il loro comportamento in mia presenza si avvicinasse a quello consueto.
Ho inoltre pensato che potesse essere importante farle sentire coinvolte almeno nelle mie decisioni iniziali, in modo che potessero parteciparvi attivamente, vedendo in quale modo si articolava la mia attività e vivendo concretamente un rapporto di collaborazione.
Per questo motivo ho fatto in modo che la decisione di convocare i genitori  di Luca, al fine di presentarmi e di spiegare loro le ragioni, gli scopi e le modalità di svolgimento dell’attività musicoterapica e di avere il loro consenso per l’attuazione dell’intervento, venisse presa insieme con le insegnanti; anche la scelta di parlare coi genitori in presenza delle insegnanti ha permesso a queste di sentirsi partecipi del progetto e ciò ha contribuito, almeno in parte, a far diminuire lo scetticismo iniziale.
Avendo però bisogno di raccogliere informazioni specifiche su Luca, avevo la necessità anche di un incontro in privato coi genitori. Dal momento che non era possibile fissare un secondo appuntamento a breve, a causa dei loro problemi di lavoro, abbiamo deciso di dividere quell’unico incontro in due parti: la prima si sarebbe svolta alla presenza delle insegnanti, la seconda senza di loro.
Sebbene la Direttrice Didattica avesse dato disposizioni perché io avessi assegnata una determinata aula, tuttavia ogni volta che arrivavo per vedere Luca, la stanza era sottosopra e dovevo lavorare mezz’ora per risistemarla. Sentivo il peso dello scetticismo e onestamente non mi sentivo molto accettata: sembravo “l’intrusa”, che in qualche modo rompeva i delicati equilibri sui quali era costruito l’andamento di quella scuola.
Solo la custode della scuola mi sembrava avere molto rispetto di me e penso che ciò fosse dovuto al fatto che avesse a cuore Luca, dal momento che si era accorta dei suoi comportamenti “strani” e che tutte le volte che arrivavo mi parlava di lui con molta tenerezza, aiutandomi nel frattempo a riordinare quella che io definivo l’”aula-bunker”, a causa della scarsa luminosità che mi avvolgeva quando vi entravo, perché tutte le tapparelle erano chiuse, e dell’odore di stantio che la caratterizzava.
Il problema di avere uno spazio dove fare musicoterapia non si è mai risolto definitivamente, poiché in pochi hanno veramente capito l’importanza della stabilità dell’ambiente ai fini terapeutici; nel mese di ottobre del 2000, infatti, ho dovuto accettare di usare una stanza del tutto diversa dalla precedente e ho dovuto lottare a “denti stretti” fino alla fine del trattamento, perché durante
l’ora in cui lavoravo con Luca potessi usare sempre lo stesso luogo e perché questo rimanesse libero per noi!
Il primo incontro con Luca
La prima volta che ho visto Luca eravamo a scuola, nel corridoio, fuori dalla sua aula. Con il consenso della Direttrice Didattica, stavo concordando un primo colloquio con le insegnanti.
Luca era uscito dall’aula, si era “lanciato” contro il corpo di una maestra e ricercava con insistenza la nostra attenzione.
Quando una di loro gli ha chiesto cosa avesse bisogno, Luca ha cominciato a raccontare una serie di avvenimenti che, a detta sua, gli erano accaduti, ma che in realtà erano evidente frutto della sua fantasia e oltretutto non avevano alcun nesso logico l’uno con l’altro.
Parlava con voce piuttosto alta girando intorno alle persone presenti, con lo sguardo rivolto a terra; il fatto che lo si ascoltasse e gli si ponessero domande, nel tentativo di interagire con lui, oppure che lo si ignorasse, non costituiva motivo per modificare questo comportamento.
È stata impressionante la grande quantità di parole, molte delle quali pronunciate in modo scorretto, o addirittura inventate, che in così breve tempo ci ha travolti come un fiume in piena; il flusso dei pensieri sembrava inarrestabile, così come il movimento di corsa intorno a noi, che tuttavia sembravamo esclusi dalla sua attenzione.
Tuttavia Luca era incuriosito dalla mia presenza: a tratti mi osservava e quando ha richiesto la mia attenzione, parlando e toccandomi come fa un bimbo piccolo con la mamma, mi sono presentata dicendogli il mio nome e chiedendo il suo. Gli ho raccontato di essere una maestra di musica e che sarei tornata altre volte a trovare lui e i suoi compagni.
Dopo un’iniziale diffidenza mi ha letteralmente accordato il suo permesso, esclamando: “Va bene, puoi venire!”
Pur non conoscendomi mi si è aggrappato al collo e prima che andassi via ha voluto abbracciarmi.
Mi sono sentita come “risucchiata” da Luca e ho provato un senso di disorientamento di fronte alla sua invasività, fatta di aggressività, di travolgenti parole, di inarrestabile movimento.
Roberta Andrello
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1Nome di fantasia, in ottemperanza alla legge della privacy, di un bimbo  avente difficoltà di apprendimento di livello grave, associato a stato
ansioso con relativi deficit di attenzione, concentrazione e pensiero logico. Difficoltà nei rapporti coi coetanei.
*Bonardi G., (2007), Dall’ascolto alla musicoterapia, Progetti Sonori, Mercatello Sul Metauro (PU).