Delogu Chiara, La bellezza nascosta: epilogo dell’esperienza musicoterapica con Michele
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- Categoria: ESPERIENZE
- Pubblicato Sabato, 01 Maggio 2010 09:13
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“Il bello è lo splendore del vero.”
Platone[1]
“La maggior parte di voi, amici miei, accosta alle rive di questo mondo portandosi nella stiva la vecchia nozione di interruzione, separazione e decadimento che si chiama ‘morte’.
Così, fin dal primo vagito, già è impressa un’idea di sconfitta… eppure: è forse una lotta per l’uomo inspirare ed espirare?
Dai due continenti della Vita nascono le forze complementari della respirazione cosmica e sarebbe inutile ribellarsi contro il viaggio dell’aria che vi entra nei polmoni per poi uscirne, contro la saggezza del sole che si mette in ombra dietro quella della luna: ciò che temete è la trasformazione, l’atto stesso della distensione che consente di abbandonare il bordo della piscina.”[2]
L’idea della dicotomia è profondamente sbagliata, perché tutto è uno. Il simbolo (ancora simboli!) del tao ne è l’esempio, simbolo perfetto: l’armonia degli opposti, perché non c’è acqua senza fuoco, femminile senza maschile, notte senza giorno, sole senza luna, bene senza male.
Non c’è piacere senza sofferenza e viceversa, solo capendo ciò, godi del piacere ed accetti la sofferenza.
Ciò che è sconveniente e relegato nell’ambito del non detto, del non accettato e del nascosto, fa parte del nostro mondo interiore e il bello e il buono, _ calos cai agazos _, in definitiva, non è altro che la somma di tutto ciò che è anche brutto e cattivo per convenzione.
Il mondo interiore è costellato da rifiuti e scarti, che spesso vengono nascosti e oscurati, mentre nel mondo del non verbale questi assumono un chiaro e degno linguaggio espressivo-emotivo.
“Nulla è separato da null’altro.
Nessuno è perdente o vincitore nella vita.
Non avrebbe senso, giacché la vita è una.
Noi siamo il tutto in cui buono o cattivo, giusto o ingiusto non hanno esistenza alcuna, eccezion fatta per quella che noi stessi conferiamo loro.
Sta a noi dare alla vita i colori che ci piacciono, quelli che vogliamo veder sbocciare tutto intorno a noi.”[3]
E in definitiva non si è mai obiettivi perché si sceglie di guardare la realtà, mentre sarebbe auspicabile capirla con l’intuito.
Galimberti, in un articolo comparso su D di Repubblica il 27 agosto 2005, provoca così: “Mi è sempre più difficile capire l’arte contemporanea perché troppi sono gli artisti, opportunamente incoraggiati dai critici, che equiparano l’amore per l’arte all’amore per le sensazioni, riducendo così l’opera d’arte a qualcosa che deve stupire, dove lo spettatore, lungi dall’essere ek-statico, cioè "fuori di sé", sta davanti all’immagine con la passività opaca (mascherata dalle parole che ha imparato dai critici) di chi è in attesa di emozioni.
Sarebbe necessario portare l’arte all’altezza della forza, dove in gioco sono le figure della vita, della morte, del sacrificio.
Sarebbe necessario sottrarla alle parole consuete con cui la concimano i critici, grandi evacuatori, prezzolati per produrre emozioni là dove in gioco non è il solletico dei sensi ma, come dice Coomaraswamy: “La grandezza del rito sacrificale dove lo spettatore è strappato alla sua personalità abituale allo scopo di divenire un dio per la durata di un rito e tornare in sé soltanto a rito compiuto, quando l’epifania giunge al termine e il sipario si cala”.
La bellezza, infatti, non è nulla di consolante e di riposante, perché a produrla è il lavoro della madre nella generazione, il lavoro di Dio nella creazione. Io penso che all’arte, che nella sua radice “ar” custodisce il senso del “fare”, penso che alla poesia, che rinvia al greco poiein, che vuol dire “produrre”, completa quel accompagnare le cose nel loro farsi e nell'abbandonarle quando sono fatte.
Qui è il dolore della creazione che l’artista conosce.
Qui è il senso di quel energheia, di cui parlava Aristotele, che metteva a capo all’ergon, all’opera, congedandosi da lei.
A me pare che di questo congedo non sono capaci gli artisti d’oggi quando mettono in scena le opere della natura che essi non hanno creato e poi le raccolgono in cataloghi, un po’ come le ordinate truppe degli Achei, di cui Omero prega le Muse di dargli il katalogos (catalogos).
E così l’arte rinuncia alla ricerca sua propria che è quella di scoprire le intenzioni della madre, il ventre di Dio.
Desiderio dei segreti dell’assoluto. Insistenza sul luogo cruciale dove lo sguardo immobile del pensiero si fissa sulla mobilità dell'esperienza alla ricerca del simbolo che mette assieme (sun-ballein) i contrari.
La bellezza della particolarità, la bellezza del mistero che si cela dietro ad un simbolo, dietro ad una parola lanciata come un sasso nello stagno.
E se la musica è un’estensione di varie dimensioni dell’umano, le dimensioni dell’umano non possono essere musica?
Tutti gli strumenti dell’arte (materia, colori) sono ricavati dalla terra e lo sguardo artistico dovrebbe riuscire a scorgere che cosa si compone quando la terra aduna e che cosa si scompone quando la terra rilascia.
Il respiro della terra. La terra, infatti, anche quando va alla deriva si riserva di tornare in sé.
Qui finisce la possibilità della descrizione, perché al logos e al suo cosmo succede il caos, lo sbadiglio della terra, che divora tutte le cosmologie e tutti gli ordini che gli uomini tentano di dare alle cose dispiegate sulla terra.
La terra, infatti, non ha solo un sopra dove si edificano le opere (d’arte).
La terra ha anche un sotto che non è esposizione ma disposizione, nel senso forte di chi dispone dell’essere e del non essere di tutte le cose.
L’arte dovrebbe occuparsi della disposizione della terra e compiere qui il suo gioco che è quello della flessione dell'inflessibile.
L’arte, infatti, conosce la flessione, la preghiera dell’artista, che chiede alla solidità della terra di piegarsi allo strumento.
Fu così che l'arte governò l’artigianato, e fu così che, in epoche ancora non assediate dalla tecnica, l’artigianato divenne con gli alchimisti luogo di conoscenza, trasformazione del vile in prezioso, dove a trasformarsi erano tanto gli elementi che approdavano all'opus quanto l’anima dell’operatore, non quando contempla la sua opera, ma quando la genera, e poi se ne congeda, provando il disinteresse di Dio che dimentica la creazione del mondo”.
Vivo Michele come il creatore di un’opera d’arte che genera e rilascia, a dimostrazione che esiste, c’è, decide.
L’angelo superbo, Lucifero, “colui che porta la luce”, prima di essere il figlio perduto, portava con sé la luce della conoscenza e come primo essere spirituale era in grado di riconoscere con chiarezza i limiti delle polarità interiori spirituali.
Egli credette di essere in grado di assorbire la Divinità e di poter, di conseguenza, assumere in sé come essere creato e quindi finito, l’infinito stesso.
Il finito, però , non potrà mai comprendere l’infinito e così Lucifero perse la posizione corretta, si allontanò dal centro.
Sorse un conflitto, una separazione delle parti, da cui deriva il nome “diavolo” (dià-ballo), colui che divide.
In quest’ottica la parte più umana di noi è quella diabolica, quella che divide, scinde, separa e ha bisogno di costruzioni articolate, mentre quella divina si occupa di vivere e sentire, di armonizzare questa scissione con l’amore.
Ora la musica, secondo me, ha questo potere, quello di unire il diviso, quello di armonizzare, quello di riconnetterci con le nostre parti ‘divine’.
L’angelo è dentro ognuno di noi, instancabilmente abbracciato al demone e si fanno compagnia, e noi cerchiamo di armonizzarli attraverso la bellezza, la musica.
Una musica che collega il divino con l’umano, il sacro con il profano, la poesia con il corpo.
Michele[4] non scinde tra musica del suo corpo e musica prodotta con gli strumenti, Michele è egli stesso musica. Non parla, perché non ha bisogno di parlare, si fa capire attraverso i gesti. Partecipa di una forza incredibilmente comunicativa. Michele è angelo, colui che annuncia un modo diverso di comunicare. E che nella sua divinità mi permette di unire i contrari, di rappacificarmi, di accordarmi come uno strumento stonato, come l’angelo con il suo demone.
Da Platone a Hillman vi sono filosofi e psicologi che sostengono e diffondono l’idea dell’unicità e irripetibilità di ogni singolo individuo, invitandoci a trovare la nostra più vera natura.
Prima della nascita, l’anima di ciascuno di noi sceglie un’immagine o disegno che poi vivremo sulla terra, e riceve un compagno che ci guidi quassù, un daimon, che è unico e tipico nostro.
Tuttavia, nel venire al mondo, dimentichiamo tutto questo e crediamo di essere venuti vuoti. È il daimon che ricorda il contenuto della nostra immagine, gli elementi del disegno prescelto, è lui dunque il portatore del nostro destino.
Il mio daimon mi ha portato fino a Michele, per raccontarmi di occhi sinceri, di una musica dell’anima, di una musica interiore, lontana da regole, schemi, sintassi e forme.
Solo viva e genuina, spontanea e vera.
I filosofi non solo stanno al mondo per rintracciare il senso che collega le cose tra loro anche in loro assenza, ossia facendo riferimento solo alla loro immagine, ma creano, in senso lato, a loro volta, immagini di straordinaria plasticità con cui disegnare la realtà, soprattutto là dove la ragione si arena e urge l’ausilio del mito.
E allora penso che Michele, con la sua musica, è il filosofo di un linguaggio antico.
Ognuno di noi ha una sua personalità, una sua vocazione, una sua immagine che lo contraddistingue in modo radicale e che, di conseguenza, va ricercata e alimentata senza posa, per rendere davvero autentica la nostra esistenza.
Noi siamo ciò che abbiamo scelto di essere.
Ed ecco che compare un nuovo regalo: con Michele scopro di voler ‘esser-ci’.
In questo senso siamo chiamati a decifrare il codice della nostra anima, affinché possiamo cogliere con nitore il senso compiuto della nostra presenza nel mondo.
Il celebre mito platonico di Er, descritto nel X libro della Repubblica, a suggello della libera scelta con cui ognuno di noi sceglie il proprio destino: Er, morto in battaglia e risuscitato dopo dodici giorni, racconta agli uomini il destino che li attende dopo la morte, sottolineando come non sarà il dèmone a scegliere le anime, ma le anime a scegliere il dèmone, per cui la responsabilità etica non è del dio, bensì degli stessi uomini che hanno liberamente scelto tra i vari paradigmi o modelli di vita loro proposti nell’aldilà.
Ecco perché il nostro modello di vita è da sempre inscritto nella nostra anima: scegliere la virtù, coltivare la parte migliore di noi stessi o attuare ogni giorno, con coerenza e coraggio, la nostra vocazione dipende, quindi, solo da noi.
[5]Platone: “Non sarà il dèmone a scegliere voi, ma voi il dèmone [...].
La virtù non ha padroni; quanto più ciascuno di voi la onora, tanto più ne avrà; quanto meno la onora, tanto meno ne avrà.
La responsabilità, pertanto, è di chi sceglie.
Il dio non ne ha colpa.
Questo daimon (daimon), che possiamo chiamare anche “genio”, componente ineludibile del nostro io, a volte può essere perso di vista, non coltivato, accantonato, ma prima o poi tornerà per possederci totalmente, per definire la nostra immagine, per far emergere quello che chiamiamo il “me”.
C’è un punto su cui lo stesso Hillman[6] insiste con passione: se l’uomo si vede solamente come “un impercettibile palleggio tra forze ereditarie e forze sociali”, si riduce a statistica, a “mero risultato”, a “vittima” di un codice genetico.
È necessario impegnarsi nel vivere il proprio destino, la propria anima.
Ogni amante sa benissimo che troppa luce fa male all’amore.
L’amore pretende un po’ di oscurità, forse perché la luce è una creatura che si muove sulla superficie delle cose.
Noi vediamo un oggetto quando la luce ha colpito la sua superficie ed è rimbalzata in un riflesso.
La luce non può penetrare.
Ma l’amore esige la profondità, la penetrazione: cose impossibili alla luce. Non c’è unione d’amore tra la carne e la luce… forse perché la ‘Parola’ che ha originato il corpo è nata in un luogo in cui non c’è luce: la bocca.
La bocca mangia ben prima di parlare.
Mangiare precede il parlare.
La nostra ‘Parola’ originaria è gemella del cibo.
Quando Ludwig Feuerbach[7], un professionista delle parole, dice che siamo quel che mangiamo, indica il luogo in cui la Parola e la carne si uniscono nell’amore.
“Mangio dunque sono”.
Il neonato, l’infans, il corpo muto, sa già quel che voleva dire il filosofo.
Il bambino conosce la saggezza del cibo. Nella bocca viene data la prima lezione inarticolata della vita.
Tutte le parole che verranno scritte dopo sono variazioni sul tema della fame.Parliamo perché il nostro essere ha fame.
Forse parlare significa soffrire di una malattia del corpo, significa aver fame. Le parole sono il surrogato del cibo che ci manca.
Le parole di Michele raccontano di una fame tagliente, di una fame arrabbiata, di una fame che lavora, che si fa spazio tra suoni e rumori.
Michele decide che è arrivato il momento giusto per parlare, ha fame di farsi conoscere.
Così la bocca apprende una nuova lezione: il mondo esterno si divide tra quello che si può mangiare e quello che non si può mangiare, le cose da mettere all’interno del corpo e quelle da lasciare all’esterno e quelle da eliminare.
Il corpo non è toccato da ciò che si dice e si conosce, ma da ciò che rimane inespresso e silente.
Parola e carne si amano negli interstizi, ove dimorano i nostri sogni. Le parole di Bachelard: “non si persuade se non suggerendo i sogni fondamentali, se non richiamando alla mente i percorsi del sogno.”[8]
La gente si converte con ciò che va al di là delle parole e promana direttamente dalla presenza del santo: l’inudibile suono mantrico che scaturisce dal suo cuore. Come afferma Govinda[9].
E dal cuore di Michele scaturiscono nuove parole.
Dal mio, un sincero grazie.
Approfondimenti bibliografici
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Chiara Delogu
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[1] Platone, L’anima, Mondatori, Milano, 2006.
[2] Anne e Daniel Meurois- Givaudan, L’incontro con lui, ed. Amrita, p. 58.
[3] Anne e Daniel Meurois- Givaudan, L’incontro con lui, ed. Amrita, p. 58.
[4] Nome di fantasia, in ottemperanza alla legge della privacy.
[5] Platone, Le opere: Teagete, Newton compton,Roma, 2002, p.107.
[6] James Hillman, Il codice dell’anima, Adelphi, Milano, 1998, p.78.
[7] Ludwig Feuerbach, L’essenza del cristianesimo, a cura di C.Cometti, Feltrinelli, Milano, 1975.
[8] Gaston Bachelard, Il diritto di sognare, Dedalo libri, Bari, 1974, p.64.
[9] Anagarika Govinda, I fondamenti del misticismo tibetano, Ubaldini, Roma, 1972.