Greco Marina, Dall’oblio dell’ascolto alla sua riscoperta
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- Categoria: ASCOLTAZIONE
- Pubblicato Lunedì, 14 Giugno 2010 08:06
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Ascolto e visione
La grande intuizione socratica, che sembrava aver aperto al pensiero occidentale nuovi orizzonti gnoseologici, è destinata purtroppo ad essere benpresto accantonata e addirittura “tradita”: la centralità del dialéghestai1 e la dimensione dell’ascolto di sé e degli altri, come via maestra per giungere alla verità, sono infatti ben presto soppiantati dall’affermazione di un nuovo procedere filosofico che sostituisce al dialogo e all’ascolto la visione-contemplazione.
L’improvvisa e, direi, brutale privazione della dimensione dell’ascolto rende orfana la cultura occidentale: “nel notevole insieme culturale che la civiltà greca ha lasciato in eredità all’Occidente, non vi è nulla, o quasi nulla, che riguardi l’ascolto. Questa è una cosa davvero strana. Come hanno potuto questi giganti del sapere, questi filosofi nati, queste creature ineguagliate dimenticare l’orecchio e la sua funzione di ascolto?”2Come è potuto accadere?
Paradossalmente è proprio Platone, erede quasi naturale del pensiero socratico, a determinare, nella sua maturità, la progressiva affermazione della visione-contemplazione come strumento principe nella ricerca della alétheia, la verità:il logos perde la dimensione acroamatica e la relazione fra l’uomo e la verità si cristallizza nel paradigma ottico3.
La maieutica socratica, cioè, aveva esaltato un particolare significato della parola lògos ereditato dal verbo léghein da cui lògos deriva4: il lògos che non è solo pensiero, non è solo il dire, ma è soprattutto ascolto-accoglimento.
La dimensione acroamatica è proprio l’ascoltare dalla viva voce5.
Nella gnoseologia platonica6, la capacità di ascolto quale esperienza di accoglimento della verità (dialéghestai) è invece sostituita dall’intuizione: la conoscenza perfetta della verità si configura come visione e contemplazione (theoría, ovvero logos intuitivo e contemplativo)7.
Il Socrate che troviamo nei dialoghi della maturità di Platone non è più il Socrate dei dialoghi giovanili: “quanto più il dialéghestai … svanisce nell’immota “visione” della verità delle idee, tanto più, allora, la forma dialogica diventa qualcosa di puramente dimostrativo [...] Lo stesso Socrate, che nei primi dialoghi [...] è il suscitatore della discussione, diventa nei dialoghi della maturità il maestro e finisce con lo scomparire del tutto”8.
Il celebre mito della caverna, in cui c’è il nocciolo della gnoseologia platonica, nasce da due necessità:
1) svincolare la ricerca della verità dalla conoscenza sensibile, quella che passa attraverso i cinque sensi, perché fallace e ingannevole;
2) affermare l’unicità della verità: non tante verità quanti sono i sensi, ma una sola che si rivela nella contemplazione.
La vista, dunque, anche se trasfigurata nella dimensione contemplativa, diviene comunque senso privilegiato.
Il “tradimento” dell’ascolto da parte di Platone si compie nella scelta di fissare il dialéghestai socratico nella scrittura, dove il nome diventa quasi immagine della cosa a cui rimanda.
L’ascolto ovviamente non svanisce del tutto nella filosofia platonica, ma perde il suo valore come strumento per la ricerca della verità: ormai l’unica via sembra essere, per la ragione, la visione-contemplazione-intuizione.
L’equazione fra conoscere e vedere9 si radica, da questo momento, nel pensiero occidentale: “il desiderio di sapere si identifica con la volontà di vedere”10.
Come l’occhio corporeo diviene occhio dell’anima, così la luce, che nel mondo sensibile consente di stabilire una relazione visiva con le cose, nella dimensione contemplativa diviene simbolo del nùs, pura intuizione del vero Bene (il sole del mito della caverna di Platone)11.
In molte altre culture più antiche di quella greca la luce era simbolo della positività, del sacro e della presenza del divino.
Questa stretta interrelazione fra occhio dell’anima, luce, conoscenza e rivelazione del divino non poteva non riversarsi dal pensiero greco nel pensiero nascente del cristianesimo che si contrappone all’ebraismo, più legato al primato dell’ascolto e alla irrappresentabilità di Jahvè12: “se dovessi definire il popolo ebreo, direi senza esitare che è il popolo dell’ascolto. Quello greco era un popolo «ascoltante»; quello ebreo è letteralmente catturato dall’ascolto. […] Gli ebrei sono andati incontro all’ascolto.
Esso li soggioga e li sprona in ogni istante, al punto chefiniscono per «obbedirgli». Gli ebrei esprimono incessantemente il desiderio di ascoltare il loro Dio.”13
Eppure, in un certo modo, anche la religione ebraica potrebbe lasciar intendere che l’ascolto autentico (e dunque la conoscenza di Jahvé) sia, in realtà, una visione: “Il Signore disse a Mosè: "Dirai agli Israeliti: Avete visto che vi ho parlato dal cielo! "”14.
“Jahvè trasforma l’udito del vero credente in vista, cosicché la voce divina è percepita con l’occhio dell’anima. Lo scambio e la trasfigurazione dei sensi sono qui realizzati da Dio stesso”15.
Nella tradizione cristiana, il credente ascolta la parola di Dio – testimoniando così la fede nel Verbum da cui tutto proviene – ma la conoscenza della verità è rinviata alla dimensione ultraterrena e si traduce, ancora una volta, in una visione di Dio.
Cosicché quella theorìa, lògos intuitivo e contemplativo, che in Platone è rivolta all’idea del Bene, qui si rivolge al trionfo della gloria divina. E nell’iconografia cristiana, infatti, Dio è sempre rappresentato come trionfo di luce.
Leggiamo cosa scrive il nostro Dante che ha magistralmente tentato di immaginare l’oltretomba fino alla contemplazione di Dio:
«Oh abbondante grazia ond’ìo presunsi
ficcar lo viso per la luce etterna,
tanto che la veduta vi consunsi!
Nel suo profondo vidi che s’interna
legato con amore in un volume
ciò che per l’universo si squaderna:
sustanze e accidenti e lor costume
quasi conflati insieme, per tal modo
che ciò ch’i’dico è un semplice lume.
…
A quella luce cotal si diventa,
che volgersi da lei per altro aspetto
è impossibil che mai si consenta;
però che ‘l ben, ch’è del volere obietto,
tutto s’accoglie in lei, e fuor di quella
è defettivo ciò ch’è lì perfetto»16.
Se scorriamo la storia del pensiero occidentale, notiamo come quell’equazione fra sapere e vedere di cui si parlava sia predominante.
Basti pensare solo alla carica simbolica dell’Illuminismo e dell’intero XVIII secolo, le siècle des lumières, quando la luce, da rappresentazione dell’illuminazione divina, diventa metafora dell’emancipazione umana dal buio dell’ignoranza e dunque simbolo del progredire inarrestabile della capacità conoscitiva dell’uomo.
La simbologia illuminista trova ampio spazio persino nel percorso iniziatico di Tamino dello Zauberflöte di Mozart. Così canta Sarastro: “I raggi del sole disperdono la notte. Distrutto è il potere conquistato dagli ipocriti con l’inganno”; il Coro risponde “Gloria a voi, iniziati! Siete penetrati nelle tenebre vincendole, sian rese grazie a te, Osiride, a te, Iside! La fermezza ha vinto e ha coronato la bellezza e la saggezza in eterno”17.
Prima di un recupero significativo e determinante dell’ascolto e della dimensione acroamatica del logos bisogna aspettare il Novecento, quando Martin Heidegger sottopone ad un radicale ripensamento il pensiero occidentale.
Egli parte, infatti, dal presupposto che sia improponibile un dire avulso dall’ascolto, un parlare che non sia parte integrale dell’ascoltare, un discorso che non sia raccolto.18
Il lògos, considerato dai post-socratici in poi solo come un dire, un parlare, un ragionare, un pensare, recupera, dunque, con il filosofo tedesco, il significato dell’ascoltare nel senso di accoglimento. Analizzando, infatti, il verbo léghein, da cui lògos deriva, Heidegger riscopre e ripropone un altro significato del termine che è raccogliere, ovvero un accogliere che raduna, mette insieme.
Il léghein è un posare e un custodire: “(Noi) siamo inclini a considerare questo mettere insieme come se fosse già la raccolta e la sua conclusione. Ma la raccolta è qualcosa di più che un semplice ammucchiare. Nella raccolta è implicito un “andare a prendere che porta dentro”. In questo domina l’ospitare; e in quest’ultimo, a sua volta, il custodire […]. Al léghein come lasciar-stare-insieme-dinnanzi importa unicamente lo stare al sicuro, nella disvelatezza, di ciò che sta dinnanzi: per questa ragione il raccogliere che appartiene a tale posare si determina sin dall’inizio in riferimento al custodire.19».
Queste riflessioni di Heidegger sono decisive in quanto descrivono perfettamente la dinamica dell’ascolto20.
Il filosofo si sofferma a riflettere sul significato di udire e ascoltare e fa un’interessante notazione: «Noi riteniamo erroneamente che l’uso degli organi corporei dell’udito sia l’udire vero e proprio; e che, all’opposto, l’udire nel senso dell’ascoltare e della disponibilità attenta vada considerato solo come una trasposizione sul piano spirituale di quell’altro che sarebbe l’udire in senso proprio21.».
Per Heidegger, dunque, l’udire non è il semplice recepire e captare le onde sonore che colpiscono il nostro orecchio. Se così fosse «sarebbe vero – dice - che un suono ci entra da un orecchio e ci esce dall’altro.
È ciò che di fatto accade quando non siamo raccolti in ciò che ci viene detto … L’udire è primariamente il raccolto ascoltare. È nella capacità di ascoltare che si dispiega l’essenza dell’udire22».
L’ascoltare, pertanto, è l’udire autentico: «Fino a che ascoltiamo soltanto il suono di una parola come espressione di un parlante, non ascoltiamo ancora affatto. In tal modo non arriveremo mai ad aver udito autenticamente qualcosa … Abbiamo udito quando apparteniamo a ciò che viene detto23».
Nella parole di Heidegger (“disponibilità attenta”) è ravvisabile una riscoperta del valore dell’ascolto attento dell’altro nella dimensione dialogica. Nella concezione heideggeriana al di fuori dell’ascolto non vi può essere lògos.
Nonostante ciò, il predominio della visione e del lògos che è solo un dire e non anche un ascoltare è giunto fino ai nostri giorni e determina, probabilmente, uno svuotamento delle relazioni umane, privandole del loro senso più vero. Eppure, nel rapportarsi agli altri è fondamentale lasciare che l’altro “si esprima come tu … saper ascoltare il suo appello e lasciare che ci parli. Questo esige apertura ... chi si mette in atteggiamento di ascolto è aperto in un modo più fondamentale. Senza questa radicale apertura reciproca non sussiste alcun legame umano. L’esser legati gli uni agli altri, significa sempre, insieme, sapersi ascoltare reciprocamente”24.
Al contrario, il lògos dei nostri tempi sembra essere totalmente lontano dalla “disponibilità attenta”; assistiamo, piuttosto, al trionfo dell’aggressività verbale, di un dire e di un parlare che sono solo prevaricazione dell’altro, imposizione del proprio punto di vista, e che nulla hanno a che vedere con l’ascolto-accoglimento.
Noi possiamo consentire di esistere a ciò che ci sta davanti a condizione che noi stessi ci mettiamo davanti in atteggiamento accogliente e, soprattutto, sforzandoci di lasciar-stare-insieme l’oggetto di conoscenza della tradizione occidentale evitando di smembrarlo, dimidiarlo, scorporarlo25.
In definitiva, pare indispensabile per il pensiero occidentale recuperare il significato più autentico del lògos perché non è possibile nessun legame, nessuna relazione fra gli uomini senza l’ascolto reciproco.
Ed è significativo che, per far questo, si finisca per tornare alle origini, riscoprendo quel messaggio interiore di socratica memoria che consiglia e ispira a perseguire un fine semplice ma elevato, la salute dell’anima, e recuperarela dimensione del dialéghestai, dell’ascolto di sé e degli altri.
Marina Greco
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1Greco Marina, L’ascolto agli albori del pensiero occidentale, 24 maggio 2010, MiA, Musicoterapie in Ascolto, Archivio 2010.
2Tomatis A., Ascoltare l’universo. Dal big bang a Mozart, Baldini & Castoldi, Milano 2005, p. 207.
3Cfr. Mancini, L’ascolto come radice. Teoria dialogica della verità, Ediz. Scientifiche Italiane, Napoli 1995, pag. 18.
4Bisognerà attendere moltissimi secoli prima che tale significato sia recuperato, come vedremo in seguito, da Heidegger.
5Dal verbo greco acroàomai, che significa appunto odo, ascolto dalla viva voce (cfr. Rocci L., Vocabolario Greco Italiano, Soc. Editrice Dante Alighieri, Città di Castello 1983.
6Cfr. Platone, Repubblica, libro VII
7Cfr. Giannantoni G., Storia della fiolosofia, vol. III, Casa Editrice Dr. Francesco Vallardi, Società Editrice Libraria, Milano 197, pp. 187-188.
8Giannantoni G., op.cit, p.156.
9Cfr. Mancini R.,op.cit , cap. 1, par.2 “Sapere è vedere”.
10Mancini R., op.cit., p. 9.
11Cfr. Mancini R., op.cit., p.28; Giannantoni G., op.cit., pp. 184-187. Si tralascia qui intenzionalmente ogni approfondimento su tutte le implicazioni filosofiche e gnoseologiche al riguardo, che in altra sede sarebbero doverose.
12Cfr. Mancini, op.cit., p. 29.
13Tomatis A., Ascoltare l’universo, cit., p. 214.
14Esodo, 20,22, trad. tratta da Bibbia CEI, www.vatican.va.
15Cfr. Mancini R., op.cit., p. 30.
16Dante Alighieri, Paradiso, XXXIII, 82-90, 100-105, versione a cura di Bosco U. e Reggio G., Le Monnier, Firenze 1983. Si veda anche “la traduzione” in immagine di queste terzine fatta da G. Doré.
17Mozart W.A. (Schikaneder E.), Die Zauberflöte, Atto II, scena 30.
18Corradi Fiumara G., op.cit., p. 10.
19Heidegger M., Saggi e discorsi, tr. it. a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976, pp. 143-144.
20Cfr. Corradi Fiumara G., op. cit., p. 14.
21Heidegger M., Saggi e discorsi, cit., p. 146.
22Heidegger M., Saggi e discorsi, cit., p. 146.
23Heidegger M., op. cit., p. 147.
24Cit. di Gadamer H. G. (Verità e metodo) tratta da Corradi Fiumara, op.cit., p. 19.
25Cfr. Corradi Fiumara, op.cit., pp. 28-29.