Musicoterapie in Ascolto

Sapere, saper fare, saper essere in musicoterapia

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Sapere
Nelle mie proficue e occasionali situazioni formative, ho conosciuto persone e istituzioni interessate a ricevere e offrire percorsi formativi molto diversificati.
Mi è capitato di imbattermi in alcuni studenti e in colleghi interessati ad accogliere e dare, nel minor tempo possibile, una quantità di conoscenze musicoterapiche nella convinzione che più saperi si apprendono e si veicolano, maggiormente è efficace la formazione ricevuta e impartita.
Per queste persone il valore prioritario era ed è quello che il semplice fatto di sapere consente loro di essere altamente competenti.
Io so, per cui, so fare.
Per queste persone il sapere è potere.
La convinzione che il sapere sia un potere è un concetto ribadito infinite volte da questi soggetti poiché lo intonano sempre, come un mantra o un disco che si ripete all’infinito.
In realtà non è detto che il sapere, da solo, sia una garanzia formativa altrimenti hanno ragione quegli studenti che, per il semplice fatto di frequentare un corso di formazione in musicoterapia, sono ben convinti di diventare, per grazia divina, dei validi musicoterapeuti.
Credere che la semplice conoscenza, per ipostasi, ti trasformi miracolosamente in un competente musicoterapeuta è un’illusione perniciosa che alberga nelle menti di quelle persone che non si pongono domande e rifuggono qualsiasi tipo di riflessione.
La questione allarmante (direi “allucinante”) è il fatto che esistono enti formativi che si prodigano e avvalorano la bontà di questi percorsi di conoscenza, rilasciando diplomi che ne certificano la comprovata, indiscussa validità.
Conoscere qualcosa è il primo gradino del percorso formativo ma non basta per diventare musicoterapeuta, ne occorrono almeno altri due: saper fare e saper essere.
 
Saper fare
Nei percorsi formativi, nelle più svariate forme e fogge, telematiche, social e tradizionali troviamo una congerie di persone, di formatori, di informatori, di studenti che, come navigati tutorial, comunicano il loro saper fare musicoterapia.
In alcune forme di video-apprendimento possiamo assistere a filmati che descrivono le mirabolanti evoluzioni compiute dal bravo musicoterapeuta tutorial di turno che riprende, con primissimi piani, i propri assistiti, dimenticando che in Italia c’è una legge che li tutela: è il decreto 196 del 2003 “Codice in materia di protezione dei dati personali” detto anche “Testo unico sulla Privacy”.
Capita perfino che l’attività proposta come musicoterapia, in realtà, sia una forma di educazione musicale in voga nelle scuole materne italiane, già trent’anni fa, mentre ora viene riproposta a persone diversamente abili come una novità.
Nella stragrande maggioranza dei casi le situazioni dimostrative di attività musicoterapiche sono fortunatamente accettabili: il sapere è ora applicato a una situazione e va benissimo così.
Ognuno di noi, di fatto, insegna, racconta e dialoga su ciò che sa fare.
Se però questo “saper fare” non è condiviso con altri “saper fare”, diversi dal proprio, si corre il rischio di credere che il proprio “saper fare” sia l’unico e il migliore dei “saper fare” che esistono al mondo, frutto di quell’unico, fantastico e indiscusso “modello teorico di riferimento” che lo ispira.
Siamo quindi al cospetto di una fede, di una certezza, di una garanzia per cui gli altri “saper fare” sono un’altra cosa e… non contano nulla.
Se vogliamo scongiurare il pericolo di una chiusa, dogmatica, autoreferenziale formazione è bene dialogare, ascoltare i colleghi e condividere i propri “saper fare” in formative occasioni di intervisione dove lo scopo è quello di accogliere, conoscere e riflettere sulle differenti metodiche musicoterapiche esistenti.
Facendo ciò realizziamo un passo verso la giusta direzione da intraprendere, ossia il saper essere musicoterapeuta.
 
Saper essere
Sono pochissime, in Italia e credo anche nel mondo, le istituzioni accademiche pubbliche o private che puntino anche sullo sviluppo della dimensione del saper essere musicoterapeuta.
Le ragioni di questo fatto sono varie e variegate ma, a parer mio, la vera formazione del musicoterapeuta è in gran parte determinata dal saper essere.
Sì, il saper essere in musicoterapia è determinante.
Come si può capire, ad esempio, la dimensione di spazio e di tempo di una seduta musicoterapica?
Vivendola sulla propria pelle.
Come è possibile comprendere le mille sfaccettature che caratterizzano la dimensione relazionale sonoro-musicale di un incontro?
Vivendole e, successivamente, riflettendoci a lungo, con calma.
Come è possibile stare in una situazione musicoterapica?
Vivendola.
Come possiamo stare in ascolto di un indicibile dolore?
Imparando ad ascoltare il proprio dolore, gelosamente richiuso in qualche oscuro meandro del nostro sé acustico.
Saper essere presuppone un lungo percorso di introspezione volto alla conoscenza e alla consapevolezza di sé.
L’introspezione, la meditazione, sono strade lunghe e difficili da percorrere ma, per un musicoterapeuta, sono imprescindibili.
Coltivare, giorno per giorno, l’arte del dubbio e della riflessione dona, a chi la compie, una diversa consapevolezza perché ben presto, grazie all’introspezione, siamo in grado di smascherare le facili e sterili razionalizzazioni che la mente ci regala.
Così, per prima cosa, scopriamo che la mente è ingannevole per definizione tautologia perché la mente… mente, appunto!
Con la ragione, “a parole”, affermiamo di essere in grado di stare di fronte al dolore, alla morte, ad un’aggressione, a un delirio ma quando viviamo la situazione, se non abbiamo compiuto un lungo, costante lavoro su noi stessi, se non abbiamo praticato la strada dell’introspezione, i nostri saperi, velocemente acquisiti, svaniscono in un lampo come cenere al vento e rimaniamo impotenti di fronte ai dolorosi eventi che viviamo: li subiamo.
In modo analogo, “i nostri saper fare” vanno commisurati con la realtà che abitiamo quotidianamente.
Fintanto che le situazioni sono prevedibili e, tutto sommato, note, non abbiamo problemi: ciò che abbiamo appreso da qualche libro o da qualche formatore funziona egregiamente ma, appena la situazione muta, anche di poco, ecco che i nostri fragili “saper fare” svaniscono per cui rimaniamo nuovamente spiazzati.
Sfortunatamente, le situazioni musicoterapiche che viviamo non sono evidenti, chiare, lapalissiane, ripetitive, semplici ma presentano moltissime zone d’ombra.
Di norma, affrontiamo situazioni musicoterapiche in cui il nostro saper essere e il nostro saper esser-ci è messo a dura prova.
Se ciò non fosse, allora utilizzeremmo quelle conoscenze e quei saper fare noti, collaudati, super efficaci e perfetti.
Di fatto, in musicoterapia, le soluzioni non sono mai semplici perché abbiamo a che fare con persone e per interagire con loro dobbiamo, necessariamente, integrare, armonicamente, i tre saperi in uno solo, creando l’esser-ci per davvero.
L’uno senza gli altri, in musicoterapia, servono a ben poco perché ci consentono solo di apparire.
Se però integriamo armonicamente i tre i saperi ecco che ci orientiamo verso la cura della persona; verso l’ascolto di sé per poter ascoltare, ossia accogliere, l’altro da sé.
Allora sì che siamo sulla buona strada.
 
 
Giangiuseppe Bonardi
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