Cavallini Daria, Gli adolescenti e la musica

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In ogni cultura, in ogni società, in ogni epoca la musica è stata considerata detentrice di un potere specifico sull’anima, sui sentimenti e sulla coscienza degli individui; un potere di cui ciascuno di noi può fare esperienza diretta nella quotidianità, quando l’ascolto casuale di una strofa di una canzone amata o le note di una sonata classica o l’assolo di un pianista jazz giungono a risvegliare memorie  credute perse.
Ecco allora che precipitiamo all’improvviso _ e volentieri _ sotto il dominio di un’emozione pura e senza nome, eppure così familiare. Sembrerebbe dunque un’esperienza squisitamente personale, pur se condivisa da milioni di nostri simili e sembrerebbe, altresì, che con il cambiare della musica non cambi il risultato allora, in questo campo,  Bach “vale” come Laura Pausini?. Si sarebbe tentati quindi, di pensare la musica come una potenza che sfugge alle gerarchie e alle generalizzazioni, un dominio indifferenziato, caotico, forse banale, ma è prudente sottovalutare un potere tanto universale da venire spesso identificato come una delle impronte fondamentali della stessa natura umana?
Non dimentichiamo che la musica comporta la possibilità di alterare e di modificare gli stati di coscienza dell'uomo, come avviene ad esempio nella danza sacra dei Dervisci o come avveniva nei riti di guarigione delle “tarantolate” dell’Italia meridionale.
Il suono governa la mente degli uomini e “poteri divini” sembrerebbero derivare da questa forma di espressione così diffusa in tutte le culture, capace di suscitare emozioni profonde, di commuovere, di deprimere, di eccitare persino di guarire come quando lo sciamano africano rianima il giovane spossato percuotendo il suo piccolo tamburo con un ritmo progressivamente identico a quello del cuore riconducendolo pian piano al suo battito naturale. Suggestione? Forse, ma soprattutto questione di ritmo, proprio come per il batterista che in concerto azzecca l’assolo che strappa l’applauso. Se il suono musicale, integrato in quel sistema di rappresentazioni che gli conferisce il suo specifico potere, ci sorprende per come riesce ad intervenire in modo tanto diretto sullo stato di coscienza degli individui, a maggior ragione ci impressiona la sua capacità di arrivare a condizionare collettivamente i comportamenti di quegli stessi individui. Il potere della musica non è forse mai stato pienamente dimostrabile attraverso criteri scientifici, ma è sempre stato descrivibile, infatti intere comunità appartenenti alle tradizioni e alle culture più diverse non soltanto lo hanno descritto  e accettato come fatto acquisito, ma si sono impegnate collettivamente _ con i loro riti, con le loro danze, con i loro canti, con i loro corpi, con i loro strumenti _ a celebrare testardamente l’evidenza di tale potere. In fondo si potrebbe concludere affermando che, per tutti noi, sembra valere la celebre osservazione di F. Nietzsche: “Senza la musica, la vita sarebbe un errore”.[1]
 
Emozioni e musica
Fin dall’antichità si è sempre riflettuto sul comportamento emozionale dell'uomo e su come quest’ultimo  ne abbia influenzato  il percorso maturativo. A seconda del periodo storico o del contesto sociale di vita le emozioni hanno avuto:
  • accezioni negative, come nel periodo in cui visse Cartesio che operò una distinzione netta tra mente e corpo, ragione ed emozione, per proseguire con l’Illuminismo dove il ‘lume’ era posto in primo piano a discapito di ogni manifestazione emotiva; 
  • accezioni positive come  nel periodo romantico (‘800) dove le stesse emozioni, soprattutto in campo artistico, letterario e scientifico, ebbero ruoli da protagonista; valgono  per tutti gli studi di Darwin che fu il primo ad indicarle come funzioni importanti per la sopravvivenza[2]  e la musica di Chopin dove l’espressione poetica si fonde con il virtuosismo esecutivo.
Questo dualismo, da sempre compagno dell’essere umano nel viaggio del progresso, è  arrivato oggi a dare due connotazioni diverse alla risposta emozionale: da una parte viene considerata come una “interferenza” rispetto alle sequenze comportamentali, organizzate secondo piani finalizzati; dall’altra è vista come un meccanismo essenzialmente adattivo e motivazionale, attivato da specifici stimoli dell’ambiente, che permettono all'uomo di affrontarlo.[3]
Il sistema emozionale, pertanto, che si costituisce attraverso componenti _ cognitive, fisiologiche, motorie, soggettive _  tra loro interdipendenti, diventa un importante fattore di maturazione del sé e di comunicazione intra ed inter soggettiva, anche se condizionata, nel suo manifestarsi  o  regolarsi, dallambiente sociale e culturale in cui si esprime. In questo contesto la musica si inserisce come fattore favorente l’espressione delle emozioni: chi non ha mai sperimentato l’effetto rilassante, inebriante _ in una parola catartico _ di un brano musicale? E ancora: chi di noi non si è socialmente riconosciuto, soprattutto in adolescenza, in pezzi che ci facevano sentire parte di un gruppo? Risposta ovvia, ma _ forse _ non proprio scontata: Tutti! Capita infatti che a volte basti una canzone a dare un senso ad un giorno qualunque; e ciò succede quando riusciamo a lasciarci andare alla musica che, seppure costruita con strutture ben definite secondo regole precise, con la sua armonia di suoni allenta le nostre difese aprendoci il cuore a significati più profondi e più vivi. Proprio in questi momenti  le emozioni parlano raccontando qualcosa di noi a noi e agli altri, laddove la paura o il dolore non impediscano questo contatto, ed ecco allora che la musica, opportunamente utilizzata, può permettere allindividuo di ritrovare quelle dissonanze percepite, ma spesso non riconosciute, trasformandole in quell'amore per sé che ci permette di diventare ciò che si è dando vita a quelle che potremmo definire ‘relazioni autentiche’.
 
Musica e disagio giovanile: un possibile intervento?
Secondo il dizionario della lingua italiana  per “disagio” si intende: “Condizione o situazione sgradevole per motivi morali, economici, di salute”.
Quante volte lo si è sperimentato?
Ma, quante volte lo si è riconosciuto?
Attualmente questo termine è prevalentemente utilizzato in riferimento ai giovani, in particolare alladolescenza,  passaggio  difficile cui nessuno sfugge.
Si è sempre posta l'attenzione, dal punto di vista psicologico al bambino e alladulto e solo da qualche anno si sta dando la giusta considerazione a questa fase. Spesso gli adulti, osservando i ragazzi, li criticano, ne fanno oggetto di studio ma, quanto li “comprendono?”
Comprendono _ dal latino cum prendere = prendere con sé _; quanti adulti li prendono con sé?
Quanto si è in grado di ri-attivare quelle stesse sensazioni che, anche se in epoca diversa, ci hanno attraversato facendoci vedere gli adulti come altro da sé,  come qualcuno cui non si doveva somigliare, ma di cui, paradossalmente, si aveva bisogno in quel difficile passaggio della crescita?
Quanti uomini maturi di oggi che hanno fatto lotte, rivoluzioni - a partire dal 1968 - contro le istituzioni e la morale di allora, sono diventati ancor più materialisti in nome di una società dell’apparire, a discapito di una società dell'essere tanto inneggiata?
I giovani sono figli di quegli uomini e chi trascorre con loro diverse ore nell’arco di una giornata non può non accorgersi della loro solitudine, del loro non essere ascoltati ma come burattini, di bello adornati, sono circondati da modelli il cui “credo” sono l’apparire e la competitività a discapito del... “vero”!
Il contatto con loro ha ri-attivato, in me, il disagio, le  antiche sicurezze nella lotta per coprire le insicurezze della persona e allora mi scopro a guardarli con tenerezza, con amore, con rabbia e con tanta voglia di ascoltarli, di cercare di comprendere le loro emozioni, di meritarne la fiducia, di offrire loro la possibilità di imparare a regolare le proprie emozioni, processo di per sé non proprio scontato e purtroppo a volte carente soprattutto nelle figure di riferimento. Il giovane è per eccellenza l’essere dai comportamenti immediati, non ha vie di mezzo o è tutto istinto o tutta razionalità (apparente) dove le emozioni sono considerate debolezza.
Varie sono le tipologie di gruppi in cui si identificano per “sentirsi”: quelli inneggianti il “Che” e il comunismo con abbigliamento e generi musicali caratterizzati da brani di musica popolare tipo “Bandiera rossa” e di tendenza prodotta da gruppi come i “City Raimbols”, “Banda Bardot” e “99 Posse”, quelli pro Bob Marley e marijuana, quelli pro abiti firmati (qui a Pescara definiti anche “Truzzi”) e house ecc., ma tutti, tutti loro hanno, al di là della maschera indossata, una gran paura di crescere, di prendere la responsabilità di se stessi, di capire cosa vogliono fare e di imparare a ri-conoscere cosa si muove nel loro animo.
A questo punto sorge  spontanea la domanda: “Come i ragazzi possono percorrere un cammino di maturazione e di ricerca armonica quando il mondo adulto, quello che dovrebbe essere di riferimento - fortunatamente non tutto - è una manifestazione di incoerenza o per dirla musicalmente di dissonanza tra quello che dice e quello che fa?”
Dopo 20 anni nella danza e 15 nella scuola superiore (dove opero come insegnante di sostegno) a contatto diretto con loro - e non dietro la cattedra - ho visto il cambiamento che è avvenuto nella popolazione giovanile e ho raccolto la loro denuncia: l’adulto, figura di per sé demonizzata in quanto tale, ha perso quelle caratteristiche di riferimento e coerenza che in passato rappresentava cioè un modello cui opporsi o da seguire, ma comunque un modello che, nella sua essenza, era fondamentale per la maturazione di quel sé caratteristico di ogni essere umano.
Rimane comunque mia profonda convinzione che esista la possibilità di un dialogo in cui entrambi si possano incontrare su un terreno comune, imparando ad arricchirsi in una relazione biunivoca.
Come insegnante mi sono più volte chiesta quale potesse essere un comune denominatore e l’ho scoperto nella danza e nella musica chiedendo ai ragazzi cosa amassero e cosa li accomunasse.
Quante risposte diverse, una presente in tutti: il bisogno di ri-conoscersi come persone in quanto facenti parte di un gruppo e la difficoltà a ri-conoscersi in sé come individuo.
Mi hanno raccontato dei râve, di questi incontri in cui sanno di andare insieme, di essere insieme anche quando, sotto l’effetto di sostanze insieme non sono più, ma liberi di agire seguendo l’istinto, consapevoli che nessuno ricorderà cosa ha fatto o cosa ha fatto l’altro quindi scevri da ogni forma di giudizio.
Mi hanno raccontato del piacere dell’immergersi in un mondo personale con gli mp3, isolandosi da tutti, ma fisicamente rimanendo con tutti... mi hanno raccontato le emozioni, le speranze, i timori che hanno ma che mai rivelerebbero al compagno per paura di essere “colpiti”, di essere traditi!
Dalle loro parole emerge la solitudine, la fragilità e l’estremo bisogno di essere compresi, di poter essere se stessi nella ricerca del proprio sé; ed ecco allora che, forse,  la mia musica e la loro musica possono dialogare, cercando di creare quella strada che permetta ad entrambi di divenire sempre più protagonisti coraggiosi della propria esistenza e imparando ad accogliere se stessi e laltro in una relazione in cui  la fiducia  e il rispetto rappresentino  gli elementi essenziali. E sulla base di quanto sopra la musicoterapia si inserisce come possibile mezzo di intervento al fine di offrire ai giovani la possibilità di conoscere e comprendere qualcosa in più di se stessi. Non si pretende di cambiare la realtà attuale, ma si cerca di agire in luogo o in parallelo del solo sterile discutere o puntare il dito rimanendo però dietro la barricata o _ per richiamare la letteratura _ fare come Verga che tanto scrisse della sua terra, del meridione e della povera gente, ma da ricco e benestante! Facile descrivere quando non si è seduti a terra, allora avendo la sedia cerchiamo almeno di tendere una mano!
Daria Cavallini
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[1] F.Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli, Adelphi, Milano.
[2] A. Damasio, L’errore di Cartesio, Adelphi, Milano 1995.
[3] P. E. Ricci Bitti, Musica fuori di sé, PCC, Assisi 1996.